Male breadwinner model, la famiglia-tipo che ha condannato le donne all'infelicità

Il male breadwinner model è un modello di famiglia sorto in un lontano passato di cui ancora stiamo scontando pesanti conseguenze. Anche di fronte a una società più evoluta che vede una totale partecipazione delle donne al mondo del lavoro, i governi, la società e le politiche di welfare non si sono ancora del tutto liberati di questa pesantissima eredità culturale che penalizza ancora una volta le donne.

Nel corso degli anni abbiamo assistito a un’evoluzione dei modelli di famiglia, anche grazie a una sempre più attiva partecipazione delle donne nel mondo del lavoro e della società, aspetto che ha ridisegnato l’assetto organizzativo dei nuclei familiari, scardinando l’antico modello che voleva la figura femminile relegata tra le mura domestiche e incaricata della gestione e della cura della casa e dei membri della famiglia.

Questa organizzazione che ha radici profonde nella storia della società patriarcale prende il nome di male breadwinner model e ha la colpa di aver generato un pregiudizio culturale di cui ancora oggi, nonostante i progressi, non ci siamo liberati.

Possono ancora vedersi, infatti, come vedremo meglio qui di seguito, le conseguenze che questa pesante eredità culturale ha generato e continua a generare sulle scelte di politiche di governi e di welfare dei Paesi occidentali.

Ma sono moltissime le implicazioni che il modello male breadwinner ha comportato sulla società e la vita delle donne dalle sue origini fino ai nostri giorni. Vediamolo insieme nel dettaglio.

Cosa si intende per male breadwinner model?

Come anticipato, il male breadwinner model consiste in un modello di sostentamento in cui sono i soli uomini a guadagnare un salario familiare e a provvedere al mantenimento della famiglia, mentre le mogli si dedicano ai lavori domestici e alla gestione e alla cura dei membri della famiglia.

È un modello nato nel passato, che trova le sue origini nel periodo dello scoppio della rivoluzione industriale, e diventato poi la norma, contribuendo a consolidare sempre più le dinamiche e le logiche della società di stampo patriarcale.

Una situazione che, nonostante le conquiste e le evoluzioni degli ultimi anni, ha sempre lasciato il suo marchio, condizionando le future politiche governative, anche dei giorni nostri, che non si sono mai veramente liberate, specie in alcuni Paesi, tra cui il nostro, di questo pregiudizio sociale.

Insomma, se oggi la condizione lavorativa delle donne non gode di una ottima salute, se ancora vigono discriminazioni di genere sul lavoro e il peso della cura e della gestione domestica ricade principalmente sulle spalle femminili è anche perché stiamo scontando questa pesante eredità culturale.

Le origini del male breadwinner model

Come dicevamo, l’inizio di questo modello si fa risalire allo scoppio della rivoluzione industriale. Prima di questo periodo, infatti, uomini e donne erano economicamente interdipendenti, lavoravano insieme in un’impresa condivisa a casa e contavano l’uno sull’altra. Questa situazione è stata però stravolta con l’avvento dell’era industriale, sul finire del Settecento, e poi, più ancora dopo la metà dell’Ottocento.

Nei primi decenni dell’Ottocento il lavoro in fabbrica proliferava e in poco tempo si è assistito a un aumento dei salari, che ha riguardato però esclusivamente gli uomini. Questo ha portato in breve tempo alla definizione di un preciso assetto famigliare e a una netta definizione dei ruoli: gli uomini al lavoro e le donne in casa, impegnate nella cura domestica e nella gestione dei figli.

La scrittrice e docente di Storia britannica moderna Emma Griffin affronta la questione nel suo libro Bread Winner: An Intimate History of the Victorian Economy, in cui prende in esame ben più di 600 autobiografie di uomini e donne della classe operaia nati tra il 1830 e il 1903.

Nella sua analisi, la Griffin mostra come la situazione che si stava venendo a delineare fosse in realtà ben poco apprezzata dalla parte femminile: moltissime adolescenti all’epoca volevano disperatamente lavorare per avere autonomia economica ed entrare nella sfera pubblica.

Nonostante il lavoro in fabbrica fosse durissimo, molte testimonianze mostrano infatti come le giovani donne lo preferissero alla fatica del lavoro di cura, che oltre a impegnarle molto e a regalarle in casa tutto il giorno, non forniva loro alcuna gratificazione di tipo economico.

Le ragazze, e le donne in generale, avevano però dei guadagni di molto inferiori, e questa condizione, unita al fatto che il peso del lavoro domestico ricadeva comunque su di loro, ha progressivamente determinato la fioritura del modello male breadwinner.

Gli stessi genitori, di fronte a questa situazione, spingevano le donne della famiglia, non solo le mogli, a contribuire al lavoro domestico e a lasciar perdere il lavoro, i cui salari non erano comparabili a quelli della forza lavoro maschile. Così le ragazze erano costrette a prendersi cura dei bambini e della casa, mentre i loro fratelli riuscivano a guadagnarsi il proprio denaro e venivano considerati a tutti gli effetti dei contribuenti finanziari.

Questo, ovviamente, influenzò i successivi modelli familiari e le prospettive di vita delle donne: le ragazze non potevano che essere portate, per sopravvivere, a sposarsi. La loro sicurezza economica era appesa a un filo, e con essa, la loro libertà.

Prima ancora di dare un nome alla questione, ci era arrivata nel 1963 anche Betty Friedan, attivista statunitense e teorica del movimento femminista degli anni Sessanta e Settanta, che con la sua opera più celebre, La mistica della femminilità, inizia a scoperchiare un vaso di Pandora e a mostrare i pericoli e le conseguenze che vivono le donne in una società che ha scelto per loro.

Nel libro, la Friedan, attraverso un questionario, intervista le ex compagne del college, arrivando a scoprire come la maggior parte di queste manifestassero un forte disagio. La Friedan arriva quindi a mostrare come le donne siano vittime di un falso sistema di valori che le costringe a vivere la ricerca di identità e significato nelle loro vite attraverso quelle del marito e dei figli.

La mistica della femminilità è quindi per la Friedan un inganno culturale che ha forzato le donne a rinunciare ai propri sogni e alla propria realizzazione professionale e a dedicarsi esclusivamente alla maternità e alla vita casalinga. Ma le conseguenze sono letali: molte delle donne relegate in questo ruolo sono infelici, depresse, predisposte all’abuso di alcol e psicofarmaci; in alcuni casi vengono richiuse in manicomi o cacciate ed emarginate per non essersi adeguate agli standard; in altri, infine, la soluzione è riconosciuta nella morte, il suicidio.

E queste situazioni trovano conferma nei dati: alla fine degli anni Cinquanta, l’età media del matrimonio era scesa a 20 anni e negli anni Sessanta stava addirittura arrivando a 17-18 anni, inoltre la frequenza al college si era ridotta al 35% mentre nel 1920 la percentuale era del 47%.

La Friedan è quindi tra le prime a vedere l’enorme costo in termini sociali e psicologici del sacrificio richiesto alle donne e la perdita di potenziale che si autoinfligge l’intera società, impendendo alle donne di esprimere liberamente se stesse e impegnare la loro energia creativa, come scrive lei stessa:

Ritengo che le loro energie sprecate continueranno a essere distruttive per i mariti, per i figli e per loro stesse, finché non verranno adoperate in un proprio rapporto con il mondo. Ma quando le donne, al pari degli uomini emergono dalla vita biologica per realizzare la propria piena umanità, il resto della loro vita può diventare il tempo delle più alte soddisfazioni.

Una delle più celebri eroine sacrificate da questa cultura che opprime le donne e soffoca le loro aspirazioni è Sylvia Plath, poetessa e scrittrice ambiziosa e piena di talento, rimasta vittima dell’epoca in cui viveva. Le tracce della sua tragica vita sono presenti nel romanzo autobiografico La campana di vetro del 1963, originariamente pubblicata con lo pseudonimo di Victoria Lucas, in cui narra le vicende di Esther Greenwood, suo alter ego.

Nell’opera c’è tutta la sofferenza per la condizione di frustrazione e subalternità della donna di quegli anni, incastrata in una vita che è stata scelta per lei e impossibilitata a dare voce ai propri desideri di autorealizzazione. Il nome dell’opera, del resto, non è certo stato scelto per caso: la campana di vetro indica la calotta di vetro in genere usata per proteggere soprammobili o altri oggetti delicati e, più in generale, il termine inglese bell jar evoca più direttamente l’idea di laboratorio scientifico, la condizione di un oggetto sotto osservazione, isolato e senza contatto con l’aria. Una perfetta metafora della donna casalinga degli anni Sessanta.

Questa, una frase centrale dell’opera:

Dovunque mi fossi trovata, sul ponte di una nave o in un caffè di Parigi o a Bangkok, sarei stata sotto la stessa campana di vetro, a respirare la mia aria mefitica

La Plath morì per suicidio un mese dopo la pubblicazione: scrisse un’ultima toccante poesia e verso le 4.30 di mattina, dopo aver sigillato porta e finestre della cucina, inserì la testa nel forno a gas, non prima di aver preparato pane, burro e due tazze di latte. Probabilmente l’intento della donna non era quello di suicidarsi davvero – venne infatti trovato un biglietto in cui chiedeva di chiamare il medico – ma un’ennesima e tragica richiesta di aiuto.

Sylvia Plath è diventata un’icona del movimento femminista e la scrittrice Paula Bennett parlò del romanzo come di una “brillante rappresentazione dell’atmosfera oppressiva degli anni cinquanta e degli effetti disastrosi che questa ebbe su donne ambiziose come Plath”.

Male breadwinner model vs dual earner

Al modello male breadwinner, che identifica nel solo uomo il responsabile del sostentamento della famiglia, si contrappone il dual earner, doppio lavoratore o a doppio reddito, ossia un modello nel quale entrambi i componenti della coppia sono impiegati full time. Questo, principalmente, grazie all’esternalizzazione delle attività domestiche e di cura attraverso servizi pubblici o privati, il ricorso a baby-sitter, badanti e lavoratrici domestiche.

Si tratta di un modello potenzialmente virtuoso che nella realtà dei fatti mostra una falla, come possiamo facilmente constatare anche ai giorni nostri: siamo infatti comunque di fronte alla questione della cura e della gestione delle attività domestiche, che ricadono maggiormente sulla figura femminile.

Ecco che nel 1999 la sociologa e accademica britannica Rosemary Crompton conia una nuova espressione e un nuovo tipo di modello che pone l’accento anche sulla prospettiva della cura: dual earner – dual carer model. Questo si basa su un modello di gender arrangement che prevede il riequilibrio del tempo di lavoro retribuito e non retribuito, in cui entrambi i componenti della coppia sono occupati a tre quarti della giornata (o della settimana) e parimenti responsabili delle attività domestiche e di cura nel resto del tempo.

La prima a teorizzare questa concezione era stata di fatto Nancy Fraser all’inizio degli anni Novanta, nel 1994, usando l’espressione universal caregiver model, che alludeva cioè alla necessità di un unico modello universale del caregiver, poiché riconosceva proprio nell’abbattimento del monopolio femminile della questione della cura, l’aspetto fondamentale che potesse favorire un’equità di genere.

Era quindi necessario che gli uomini si spostassero anch’essi verso il lavoro di cura, proprio come le donne si erano già spostate verso il lavoro di mantenimento. Non bastava e non basta l’ingresso della donna nel mondo del lavoro, se non si adopera un cambiamento anche in questo senso.

Il modello dual earner – dual carer della Crompton si propone quindi di creare una terza forma di gender arrangement che vada ad aggiungersi ai due modelli post-industriali del male breadwinner – female part-time earner (appunto, sempre a svantaggio della donna) e del dual earner, nel tentativo di superare la tensione tra prospettiva della cura e prospettiva dell’occupazione e favorire una parità tra uomini e donne in entrambe le sfere.

Oltre a prevedere congedi di maternità di ragionevole durata per incentivare il ritorno all’occupazione delle madri e servizi di cura di qualità e con orari accessibili, come nei precedenti modelli, questo punta su una riduzione del tempo di lavoro retribuito a “tre quarti” della giornata (o della settimana) per entrambi i componenti della coppia e a efficaci politiche di promozione della paternità tramite congedi di paternità.

In questo modo, il dual-earner – dual carer aiuterebbe a garantire pari opportunità in ambito economico-lavorativo, poiché i servizi di cura non sono esclusivamente a carico delle donne.

Superare il male breadwinner model

Il modello del male-bread winner è oggi fortunatamente in declino. Le donne hanno fatto prepotentemente il loro ingresso nel mondo del lavoro, eppure, come abbiamo visto, su di esse continua a gravare la gestione dei lavori domestici e della famiglia e il sistema-lavoro non smette di penalizzarle anche per questo.

Quindi, sebbene ad oggi non possiamo certo dire che sia ancora in vigore il male breadwinner model, di fatto anche con il ben più evoluto modello dual earner le cose non cambiano in modo sostanziale, perché a rimetterci sono ancora le donne e le loro carriere.

La tendenza generale nei paesi dell’Europa occidentale è quella di allontanarsi dal modello maschile del capofamiglia e verso un modello a doppio reddito, ma sono ancora pochi i governi che hanno fatto un serio tentativo di cambiare le relazioni di genere della cura all’interno delle famiglie, e la partecipazione delle donne al mercato del lavoro le ha esposte al doppio carico di lavoro pagato e non pagato.

La Svezia rappresenta uno dei modelli più virtuosi in questo senso. Ha iniziato il suo allontanamento dal modello del capofamiglia alla fine degli anni ’60 e ha incoraggiato le donne a entrare nel mercato del lavoro con politiche di sgravi fiscali e un maggiore impiego di risorse pubbliche per finanziare misure che agevolino l’equità di genere, come strutture pubbliche di asili nido, congedi parentali e congedi per malattia dei figli.

Si è poi cercato di aumentare la partecipazione degli uomini nella cura attraverso programmi educativi e congedi parentali, con alti tassi di sostituzione del salario da parte dello Stato e quote di congedo “usa o perdi” per i padri. Queste sono alcune tra le più efficaci politiche governative della famiglia in grado di favorire un cambiamento e porre fine alle discriminazioni di genere.

In Italia purtroppo siamo ancora messi molto male: la disparità tra uomini e donne nel tempo dedicato al lavoro domestico è la più elevata in Europa.

La cosa è poi enfatizzata ulteriormente dal trattamento diverso che ricevono uomini e donne di fronte a una situazione come la nascita di un figlio. Una situazione che vede ancora una volta penalizzate le madri, a cui tocca di norma una diminuzione salariale, carriere compromesse dai congedi di maternità e part-time forzati, anche per mancanza di infrastrutture sociali, tra cui servizi educativi per i figli a prezzi ragionevoli o gratuiti, essenziali per permettere il rientro al lavoro delle madri.

Se, infatti, la gravidanza “costa” alle donne almeno una diminuzione del 4% dello stipendio per figlio, agli uomini per ogni figlio corrisponde in genere un aumento salariale medio di oltre il 6%, e questo non è che una riconferma e conseguenza del modello male breadwinner di cui abbiamo parlato fino ad ora.

Come sostiene Michelle J. Budig, presidentessa del dipartimento di sociologia dell’Università del Massachusetts Amherst, questo modello – e pregiudizio culturale – ha infatti continuato a serpeggiare nella società moderna, contribuendo a fare a della paternità un valore, poiché i padri continuano ad essere di fatto considerati i “capofamiglia”, coloro che si occupano del sostentamento della famiglia, mentre alle donne, e quindi alle madri,   viene prima di tutto riconosciuto il ruolo di gestore della vita familiare.

A conferma di questo, basta vedere che il congedo parentale, che può essere concesso a uno dei due genitori, nel 2019 è stato preso per l’80% dalle mamme. Oltre a un fatto pratico, risulta quindi piuttosto evidente che ci troviamo di fronte a una questione culturale.

Ma non è finita qui: un’ulteriore conferma di questa disparità, ce la offrono anche i dati del periodo del lockdown, che registrano un numero altissimo di abbandono del lavoro da parte delle donne. Il tasso di occupazione femminile nel periodo post lockdown è infatti sceso dal 53% del 2019 al 48%. Su 800.00o persone che hanno perso il lavoro, 447.00o sono donne, quindi più della metà del totale, nonostante il tasso di occupazione femminile sia minore rispetto a quella maschile: siamo infatti a 49,7% contro il 67,6% degli uomini.

Le cause di questa condizione sono da ricercarsi ancora una volta nel fatto che la  gestione dell’attività domestica e della cura dei figli ricade quasi completamente sulle spalle delle donne: la chiusura di asili e scuole e la mancanza di aiuti e infrastrutture adeguate ha avuto nuovamente un costo altissimo per la vita delle donne e le loro carriere.

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