Il termine revenge porn è entrato con preponderanza nel lessico comune, complici i numerosi casi che finalmente vengono alla luce, per i quali dovrebbe essere ormai chiaro chi detiene la colpa.

Per chi non sapesse di cosa sto parlando, si tratta della pratica di diffondere materiale (immagini e/o video) di natura intima e sessuale di un’altra persona senza il suo consenso. Un abuso che colpisce in particolar modo le donne, soprattutto quando le relazioni finiscono, e i messaggi piccanti che ci si è scambiati diventano armi pensate per ferire la dignità altrui.

Il fenomeno è stato compreso nella sua gravità al punto da diventare reato con l’ormai celebre Codice Rosso, un enorme passo avanti che ha permesso di superare la reticenza di alcuni cittadini, che ancora faticano a capire che la persona che subisce il revenge porn non ha colpa.

Il recente caso della maestra nel torinese è un ottimo esempio, in quando finalmente la legge ha chiarito in modo cristallino quali fossero i veri colpevoli. Ciononostante non sono mancati i commenti dei soliti (e solite) che continuano a pensare: “eh ma anche lei che manda certe foto…”.

E a nulla valgono le prese di posizioni celebri, vedasi per esempio Marchisio, o il ribadire costantemente che nello scambiarsi materiale sessuale tra adulti consenzienti non c’è niente di male o che sì, incredibilmente anche le maestre sono creature sessuate: nella mente di molti se fai “certe cose”, soprattutto se sei donna, un po’ te la devi aspettare la fregatura. Insomma, il solito vecchio “te la sei cercata”.

Come spiega bene questo post illuminante di Lusterypov, tale mentalità è paradossalmente alimentata dal termine stesso che si è scelto di usare: revenge porn, “vendetta porno”.

Alla luce del fatto che sia già un mezzo miracolo che finalmente se ne parli nel modo corretto, stare a fare i precisini sul lessico può apparire una pignoleria inutile, ma non va mai dimenticata l’enorme importanza delle parole.

Realtà e vocabolario si influenzano l’un con l’altro e a volte cambiare le parole ha un’enorme impatto nel modificare in meglio il mondo. Insistere sull’usare le declinazioni femminili per le professioni, l’uso dell’asterisco o della schwa per una maggiore inclusività, descrivere i casi di femminicidio come delitti di genere e non come delitti passionali: sono tutte accortezze che fanno bene al pensiero comune. Al netto delle menti pigre che mal digeriscono qualsiasi novità.

Perciò, la stessa attenzione dovremmo averla anche in questo caso, dove termini come vendetta e porno sono in realtà molto fuorvianti.

Non c’è alcuna vendetta, perché non c’è nessun torto da ripagare. Interrompere una relazione, per quanto i modi possano essere spiacevoli, non giustifica compiere un reato per vendicarsi. Continuare a usare revenge rende molto più difficile smantellare l’idea che la diffusione del materiale intimo derivi da un torto di cui la vittima si è resa precedentemente colpevole.

Non sarebbe giustificato nel caso in cui fosse vero (dovremmo ormai essere lontani dalla legge occhio per occhio) figuriamoci dunque quando vengono diffuse immagini di persone che neanche si conoscono. Infatti ormai con cadenze quasi inquietanti escono spesso notizie sull’ennesimo gruppo Telegram in cui il revenge porn la fa da padrone, a danno di ragazze che a volte non hanno alcun legame con chi continua a condividere le loro foto, finite in perversi archivi che si sono man mano riempiti.

È palese quindi che spesso la “vendetta” non c’entri nulla, ma anche parlare di porno non è corretto, perché le fotografie e i video in questione non hanno nulla a che fare con la pornografia, la quale è un mondo in cui vi è sempre (o dovrebbe) esserci il consenso.

Fare questo accostamento porta da un lato a considerare erroneamente il materiale intimo altrui qualcosa creato per il piacere di chiunque e dall’altro a stigmatizzare la pornografia in toto, una volta che il revenge porn viene mascherato e giustamente punito.
È un meccanismo deviante che porta a volte a far combaciare i due mondi, con piattaforme pornografiche su cui vengono caricati video di persone che non hanno mai dato il consenso. Un modo per ostacolare tutto ciò sarebbe iniziare a preferire e premiare coloro che si dedicano a una pornografia etica, Erika Lust in testa.

Fatta tutta questa riflessione quale sarebbe quindi la soluzione? Lusterypov suggerisce di usare al posto di revenge porn il termine imaged-based sexual abuse (abuso sessuale a mezzo immagine). Un termine che di certo non ha il medesimo appeal, quel porn così accattivante per i click è parte fondamentale della fortuna del termine, e perciò è improbabile avvenga una veloce sostituzione.

Tuttavia, ancora più utile di utilizzare i termini adeguati, quello che bisognerebbe davvero comprendere, e che mitigherebbe molto i danni che questi abusi sessuali creano, è che il vero dramma si consuma al di fuori dei due protagonisti (vittima e colpevole) in quanto sono le persone attorno a chi subisce revenge porn che trasformano le foto osé in lame da conficcare nel corpo della persona.

Lo scrissi anche in merito alla triste vicenda di Tiziana Cantone: i veri assassini siamo stati tutti noi. Sono coloro che bisbigliano pettegolezzi, che giudicano il valore di una persona in base alla sua attività sessuale, sono quelli pronti a condannare atti che non fanno del male a nessuno. La verità è che se al mondo non interessasse cosa fanno le persone a letto, diffondere foto intime non creerebbe nessun scompiglio, nessuna condanna, nessuna tragedia. Cosa che renderebbe vano anche il gesto di condividerle per ripicca.

Quindi, se funziona per tenere alta l’attenzione e siamo troppo pigri per cambiare, chiamiamolo pure ancora revenge porn, l’importante è comprendere che per risolvere il problema occorre agire non solo su quelli che condividono foto e video senza consenso: occorre agire su tutti noi.

In modo tale che nessuno, nemmeno la preside più bigotta, possa ritrovarsi a pensare che sia giusto licenziare una maestra solo perché ha fatto sesso.

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  • Uomini che amano le donne