"Il futuro non ci assomiglierà", intervista a Michela Andreozzi

Paladina delle childfree, da sempre interessata a mettere in scena storie di donne solidali tra loro, la regista romana racconta a Roba Da Donne, prima del suo incontro a Sguardi Altrove Film Festival, gioie e pregiudizi di essere donna dietro la macchina da presa.

Attrice, sceneggiatrice e regista, Michela Andreozzi è la protagonista, lunedì 26 ottobre, del primo degli incontri previsti al Teatro Franco Parenti di Milano (e in diretta streaming) in occasione di Sguardi Altrove Film Festival, di cui Roba Da Donne è uno dei media partner.

Women to Watch, a cura di Barbara Tarricone Hamilton, prevede l’intervento di Andreozzi dalle ore 19 (anche in diretta streaming a questo link). A seguire, l’incontro Cinema e dintorni. Omaggio a Claudia Gerini e Talk Oltre Oceano, durante il quale l’attrice romana in collegamento streaming presenta il film di cui è protagonista, Anna Rosenberg, che affronta il tema della violenza psicologica e fisica subita dalle donne vittime di femminicidio. A chiudere il programma, alle 22.00, il panel internazionale Women in cinema: the post Metoo era. A conversation on changes of perspectives, scenarios and content between Italy and Hollywood, al quale partecipano personalità dell’industria cinematografica di differenti Paesi del mondo, tra cui Mira Sorvino, per discutere i cambiamenti determinati dal MeToo.

Michela Andreozzi, cosa pensa quando sente parlare di femminicidio?
«Ogni volta che sento una notizia di questo genere sanguino da qualche parte. È un dolore fisico che provo, come se fossimo tutte legate in qualche modo. Spero che questo dolore si espanda come una rete, perché il dolore è un sintomo. Quando senti dolore vai a cercare la causa: se inizia a fare male davvero a tutte, si troverà meglio il modo di educare i ragazzi, di denunciare, di proteggere chi ci sta vicino. Il femminicidio ci riguarda profondamente e intimamente. Dobbiamo percepirci come un organismo unico, altrimenti non ne usciamo; dobbiamo sentire come nostre le botte e come nostre le coltellate date a una di noi».

E la sua posizione nei confronti del MeToo?
«Il clamore del movimento in sé mi ha sempre lasciata perplessa, perché ho sempre paura che al clamore non seguano le azioni. Poi, io sono figlia di avvocati: per me uno non è colpevole finché non viene processato. Non riesco a puntare il dito in automatico. Apprezzo però questo senso di unione che ci stiamo portando dietro anche in altre cose. Lo abbiamo sentito come italiani durante il lockdown per il Covid, lo abbiamo sentito come attori quando abbiamo fondato U.N.I.T.A. (l’Unione Nazionale Interpreti Teatro e Audiovisivo creata da un centinaio di attori nel settembre 2020 per difendere la categoria e tutelarne la dignità, ndr.). Questa rete di solidarietà e di mutua comprensione è la cosa migliore venuta dal MeToo. Un movimento che, visto il momento, potremmo chiamare un’aggregazione senza assembramento».

Dopo Nove lune e mezza, del 2017, è tornata dietro la macchina da presa per Brave ragazze, del 2019. Com’è essere registe e donne oggi?
«Ho avuto il piacere di cavalcare l’onda della quota rosa: se ci viene data un’occasione è importante che si usi fino in fondo per farsi sentire. Eppure mi pare che si parli tanto di regia femminile e molto meno dei film girati dalle donne. Credo che vivremo in un mondo equo quando si smetterà di chiedere il genere del regista e l’opera verrà giudicata solo per quello che vale. Poi è chiaro: la femminilità è un valore aggiunto nel cinema. Però questo non significa che sia sempre sinonimo di delicatezza, perché esistono Kathryn Bigelow e Jane Campion, solo per fare due nomi; non è sempre sinonimo di umorismo delicato, perché Nora Ephron “pistava” che era una bellezza».

Cosa si augura a riguardo?
«Bisogna utilizzare questo momento, in cui c’è stato acceso uno spot davanti, per far conoscere le nostre opere, per difenderle e far sì che ne vengano altre. Vorrei avere dietro di me frotte di 25enni che affrontano la regia senza paura. Credo e spero che lo faranno. Mi pare ci siano generazioni molto più smart in questo senso, in cui il no gender sia un tema declinato in tutti gli aspetti della cultura. Stiamo guardando tutto con un occhio un po’ al passato, ma il futuro non ci assomiglierà. Almeno lo spero».

Il mondo del cinema, dietro le quinte, conta un folto esercito di donne: scenografe, costumiste, sceneggiatrici, montatrici. Sono a tutt’oggi, invece, poche le donne che si dedicano alla regia. A cosa è dovuto secondo lei?
«È una domanda a cui non so rispondere con certezza, ma posso dire che se sei incinta o se hai dei figli piccoli è molto difficile gestire le riprese di un film. La regia è un lavoro muscolare senza orari. Questo non vuol dire che le donne con figli non possano fare film, solo che hanno meno tempo. Io non ho figli e quindi non ho nessun tipo di vincoli. Stare dietro la macchina da presa è come guidare un sottomarino: dirigi e vai sott’acqua per sei, sette, otto settimane, senza mai riemergere. Chi dirige un film non esiste dentro casa, è con la testa nel futuro, la sua testa è presa dalle inquadrature, impegnata a rispondere alle domande di 60 persone sul set. Se avessi dei figli, probabilmente scriverei molto più di quanto dirigerei, perché si può scrivere in grande autonomia».

Si è più volte definita una fiera childfree, una donna che sceglie scientemente di non avere figli. Sul tema ha scritto un libro, Non me lo chiedete più, e girato il suo primo film, Nove lune e mezza.
«Nel libro c’è quello che non ho potuto mettere nel film. La commedia esauriva solo una parte di quel tema. Non me lo chiedete più è una sorta di compendio di Nove lune e mezza: le mie riflessioni a margine».

Vede ancora nella società la stessa pressione che c’era fino a qualche anno fa verso le donne a fare i figli?
«Sono contenta di essere stata una delle paladine in Italia in questo senso. Adesso ce ne sono tante. Le millenial sono fragili per dei versi, ma si stanno facendo sentire e si stanno aprendo con naturalezza alle diverse possibilità di realizzarsi come donne e come esseri umani. Non so se abbia anticipato i tempi o passato un testimone, ma di sicuro la generazione delle trentenni vive l’essere childfree con meno stress della mia».

In Brave ragazze, invece, ha affrontato il tema dell’amicizia tra donne. È una storia che ha girato solo parecchio tempo dopo averla scritta.
«Si basa su un evento realmente accaduto in Francia negli anni Ottanta, in cui mi sono imbattuta nei primi anni Duemila e che ho riscritto per l’Italia. Il secondo film è un progetto sempre doloroso, con un miliardo di pressioni interne; adesso che sto preparando il terzo mi pare una passeggiata di salute a confronto. Brave ragazze è stato il primo film che ho scritto, ma nessuno ti permette di esordire alla regia con un film in costume, per di più un action con 4 donne protagoniste, con una cifra stilistica a metà tra la commedia e il dramma. È stato un progetto molto ambizioso ed impegnativo. Io stesso non lo produrrei, come opera prima, a chi viene dalla commedia come me».

Ha diretto un cast in stato di grazia: sullo schermo si vedono quattro attrici affiatatissime. Come c’è riuscita?
«Ambra Angiolini, Ilenia Pastorelli, Serena Rossi e Silvia D’Amico sono state molto sagge: hanno capito subito che fare squadra sarebbe stata la cosa migliore e l’hanno fatta dal minuto zero. So che alcune di loro ancora si sentono. Avevano una chat senza di me, cosa di cui sono ancora molto gelosa. È stato molto istruttivo avere a che fare con un cast così profondo, particolare e sensibile. Quando le trovi 4 donne che fanno una rapina? In Italia credo di essere stata la prima, se non l’unica, forse».

Le donne che fanno squadra hanno una potenza dirompente?
«Non lo so, ma sicuramente le donne insieme sono più forti che da sole. Credo talmente tanto nel fare squadra che uno dei progetti che vorrei fare è insieme ad Ambra Angiolini e Claudia Gerini, mie amiche storiche nonché protagoniste dei miei primi due film: abbiamo il progetto di fare uno show in tv. Chissà se ci riusciamo. Però siamo ancora nell’ambito: “che caruccia, fai la regista, sei una femmina”. C’è sempre da scavallare quella roba lì. Finché dobbiamo parlare della solidarietà femminile significa che stiamo un pezzetto indietro. Per questo il protagonista del mio prossimo film è un uomo».

Il tema della solidarietà femminile, però, torna anche nella commedia Figlie di Eva, diretta da suo marito, Massimiliano Vado, e interpretata insieme a Maria Grazia Cucinotta e Vittoria Belvedere.
«Sono il guru della solidarietà femminile. Ho scritto una commedia per due amiche, insieme a Vincenzo Alfieri e Grazia Giardiello, su una vendetta portata avanti da tre donne. Lo spettacolo ha avuto un successo allucinante: 130 date tutte sold out. Vediamo se riusciremo a portarla ancora in tournée, come sarebbe pianificato. Dipende da cosa succede nei prossimi mesi».

Cosa c’è nel futuro di Michela Andreozzi?
«Mi pare che, a 50 anni, ho detto tante delle cose che volevo dire. Adesso, spero di impiegare il tempo che mi resta – conto di essere a metà della mia vita a questo punto – un po’ come Clint Eastwood: raccontando delle storie. Per il resto, sono contenta di aver detto la mia sulle childfree. Continuo a portare avanti le mie tematiche, ma mi pare che a un certo punto bisogna anche fermarsi ad ascoltare; il Covid ce lo ha insegnato molto bene. Adesso dobbiamo ascoltare i giovanissimi, le nuove generazioni che si stanno occupando del Pianeta».

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