Pinkwashing: tra aziende che ci credono e furbi lavaggi di coscienza

Nato per smascherare i "furbetti" che volevano approfittare della lotta al cancro per i propri guadagni, oggi con il termine pinkwashing si indicano varie strategie di marketing, ma anche di una certa politica, che lo usa per nascondere alcuni lati oscuri.

Qualcuno di voi potrebbe aver sentito parlare del pinkwashing, in riferimento a strategie di marketing ma anche di politica, pur non avendo le idee chiarissime su cosa il concetto indichi o significhi.

Proviamo a fare ordine, cercando anche di comprendere perché spesso se ne parli come di un tentativo, per alcuni, di “lavarsi la coscienza”.

Pinkwashing, cosa significa?

Nata dalla crasi tra pink“, rosa, e “whitewashing“, ovvero imbiancare o nascondere, questa parola è stata inizialmente usata per scopi nobili, da un’associazione per la lotta contro il cancro al seno, al fine di identificare e smascherare la aziende che lucravano sulla malattia, fingendo di dar sostegno alle malate per trarre profitto.

Da lì ha finito con il comprendere, in un senso più ampio, la promozione di un prodotto o di un ente con un atteggiamento di apparente apertura nei confronti di alcuni temi o campagne, come quella dell’emancipazione femminile o del mondo gay; per questo motivo una simile tecnica è spesso identificata anche con un termine più specifico, rainbow washing.

Storia del pinkwashing

Impossibile non notare le somiglianze tra il pinkwashing e il greenwashing, da cui ha preso dinamiche e tecniche, e con cui condivide le critiche; il greenwashing , infatti, è la medesima tecnica di comunicazione finalizzata alla costruzione di un’immagine ingannevolmente positiva di sé e della propria mission, stavolta sotto il profilo dell’impatto ambientale.

Anche il pinkwashing, utilizzato come detto per sbugiardare campagne pubblicitarie che usavano la lotta contro il cancro al seno per i propri guadagni, proponendo i prodotti contrassegnati dal fiocchetto rosa, è nato, come l’omologo “green”, come critica, per cercare di far comprendere quanto le azioni di queste aziende non fossero mosse da effettivi interessi scientifici ma unicamente allo scopo di catturare l’attenzione di un determinato target, sensibile al tema, il quale, naturalmente, finiva, al momento dell’acquisto, con il preferire i prodotti di quel particolare brand, percependolo appunto impegnato in un’attività lodevole.

In particolare, il termine è stato coniato nei primi anni Duemila dall’associazione Breast Cancer Association, la cui principale attivista, Barbara Brenner, è morta nel 2013, non senza aver condotto una battaglia serrata contro la mercificazione della malattia; proprio lei, a San Francisco, fu l’ideatrice del progetto Think Before You Pink, proprio per rispondere al sempre maggior numero di prodotti contrassegnati con il nastro rosa, venduti appunto con la promessa di raccogliere fondi e sensibilizzare sul tumore al seno.

Molti brand statunitensi, soprattutto nell’ambito della cosmesi, infatti, avevano approfittato della particolare sensibilità al problema per tacere il fatto che alcuni degli ingredienti dei loro prodotti contenessero sostanze chimiche spesso associate all’insorgenza del cancro, regalando prodotti di make-up alle malate oncologiche per mostrare la propria magnanimità e vicinanza.

Oggi il pinkwashing trova un ulteriore prolungamento, stavolta sul versante femminista, nel commodity feminism, per cui le cause tipiche del femminismo vengono fatte proprie da aziende che le svuotano del loro significato mercificandole, non facendo in realtà altro che confermare stereotipi di genere e standard di bellezza che, all’apparenza, affermano di voler combattere.

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scritto da: @marshallaetitia #femminismo

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Esempi di pinkwashing nel marketing

Sono molte le aziende che credono nella tecnica del washing, sia esso pink, rainbow, purple o green che dir si voglia; in generale, sembra che la strategia usata da molte di loro vada di pari passo con quelle che sono le tematiche di più stretta attualità, ed è per questo che, negli anni, abbiamo assistito alle varie “colorazione” del washing.

Un esempio su tutti, quantomai recente, riguarda la questione LGBT, con sempre più brand che, in occasione ad esempio dei Gay Pride, “rivestono” le confezioni dei propri prodotti con l’arcobaleno simbolo della comunità, per mostrare il proprio lato gay friendly e la vicinanza ideale alle lotte antidiscriminazione da essa portate avanti.

Quanto ci sia di strategia e quanto di reale coinvolgimento nella causa, ovviamente, non ci è dato saperlo; possiamo però affermare, senza alcun dubbio, la lontananza da una volontà di fare rainbow washing di Guido Barilla quando, nel 2013, affermò

Non faremo pubblicità con omosessuali perché a noi piace la famiglia tradizionale. Se i gay non sono d’accordo, possono sempre mangiare la pasta di un’altra marca.

Sancendo, in questo modo, una presa di posizione di distanza netta dalla questione, con tutte le accuse e le critiche del caso che piovvero su di lui e sull’azienda italiana; presa di posizione poi (opportunamente) rivista, non si sa se per un improvviso cambio di opinione in merito, o se per una strategia acclarata di pinkwashing. Fatto sta che oggi Barilla è addirittura ai primi posti nella classifica della Human Right Campaign, associazione per i diritti degli omosessuali che stila ogni anno il Corporate equality index.

Ma un altro esempio celebre di pinkwashing è quello attuato dal colosso di moda low cost Primark, che nella primavera del 2018, a pochi mesi dal Pride, ha lanciato una collezione chiamata proprio “Pride“, destinata al mercato europeo e statunitense, dichiarando che il 20% dei proventi sarebbe stato destinato a Stonewall, l’associazione di beneficenza britannica per i diritti LGBT che prende il nome dai famosi moti del 1969 che sancirono l’inizio delle rivendicazioni LGBT.

Ignorando volutamente di considerare che i capi della collezione erano prodotti in Turchia e Myanmar, Paesi in cui i diritti delle persone LGBT sono a dir poco sottovalutati, l’iniziativa di Primark fu aspramente criticata dalla comunità perché proprio Stonewall non solo non figurava tra gli organizzatori dei Pride di quell’anno, ma aveva anche fatto sapere che non avrebbe partecipato al Pride di Londra.

In sostanza, i detrattori sostennero che Primark, al solo scopo di farsi pubblicità, aveva usato il nome di Stonewall in quanto più conosciuto, quando invece, se davvero avesse voluto fare qualcosa di concreto per il mondo LGBT, avrebbe potuto destinare la percentuale dei proventi ad altre associazioni locali, meno note ma più coinvolte in prima linea nell’organizzazione del Pride.

Pinkwashing e politica: la contraddizione di Israele

pinkwashing

Il pinkwashing non è una strategia sconosciuta neppure in ambito politico, con alcuni esempi davvero eclatanti come, ad esempio, quello dello Stato di Israele, Paese estremamente gay friendly e, in quanto tale, considerato una vera e propria eccezione nel Medio Oriente, generalmente chiuso nei confronti dell’omo o transessualità, ma lacerato da una profonda contraddizione interna di cui andremo a parlare.

La svolta pro LGBT, per Israele, arriva nel 1993, quando lo Stato permette per la prima volta alle persone facenti parte di questa comunità di iscriversi al servizio militare, e prosegue poi con l‘eliminazione della legge sulla sodomia, cinque anni più tardi.

Nel medesimo anno, il 1998, la Corte Suprema israeliana stabilisce che settore pubblico e privato debbano garantire io medesimi benefici sociali ai coniugi dello stesso sesso, mentre nel 2005 è tra i primi Paesi a riconoscere tutti i matrimoni omosessuali celebrati all’estero.

Come si è giunti a determinati traguardi? Molto dipende da alcuni episodi accaduti proprio nello Stato, come l’accoltellamento delle sei persone al Pride di Gerusalemme del 2005, da parte di un ultraortodosso, o dell’invito, un anno dopo, da parte di un attivista di estrema destra a cominciare una “guerra santa” contro le persone queer.

È però l’uccisione, nel 2009, di due adolescenti partecipanti al Gay Pride a stabilire un vero giro di boa, con Simon Peres, ai tempi presidente di Israele, e Benjamin Netanyahu, allora ministro per la strategia economica e l’uguaglianza sociale, che parlarono di “national loss”, perdita nazionale, e diedero il la alla campagna Brand Israel, trasformando di fatto il Paese in un posto ideale in cui si combatte per i diritti di tutti, in una cultura cosmopolita e accogliente. Ma il marchio servì soprattutto per liberarsi dall’immagine di Paese guerrafondaio, reputazione ricevuta soprattutto dopo l’intervento militare in Libano del 2006, che ne lese l’immagine fuori dai confini nazionali.

In questa rinnovata veste, Brand Israel ha incluso quindi il turismo gay friendly, con il lancio della campagna Tel Aviv Gay Vibe nel 2010, che offre viaggi scontati e attività gratuite ai turisti LGBT.

In una regione in cui le donne vengono lapidate, i gay vengono impiccati e i cristiani perseguitati, Israele si distingue. È diverso.

Dichiarò Netanyahu nel 2011, di fronte al Congresso degli Stati Uniti. Peccato che la profonda contraddizione che riguarda Israele e il grande rispetto per i diritti di tutti riguardi soprattutto i palestinesi, la cui tutela viene sistematicamente ignorata, indipendentemente dall’orientamento sessuale. Se i palestinesi LGBT lottano contro l’omofobia, al contempo devono farlo anche contro l’occupazione e la discriminazione da parte dello Stato israeliano, che non lo riconosce, e con cui ha un conflitto aperto da più di settant’anni.

Il pinkwashing israeliano cerca quindi di mascherare gli sfollamenti, le espropriazioni e la privazione dei diritti ai palestinesi, che gli hanno anche consentito di poter costruire quel “paradiso gay” che è diventata negli anni.

Altre tecniche politiche sono quelle che la professoressa di studi di genere Jasbir Puar ha descritto nel libro Terrorist Assemblages: Homonationalism in Queer Times (Assemblaggi terroristici: l’omonazionalismo in tempi queer) utilizzando il termine omonazionalismo, con cui intende la strategia, applicata negli USA, di tutelare i diritti delle persone LGBT, sottolineandone accettazione e tolleranza, al fine di inglobare le minoranze sessuali in un nazionalismo in cui il Paese di appartenenza finisce con l’essere visto come il solo in grado di dare difesa dei diritti e libertà.

Allo stesso tempo, i cittadini musulmani vengono rappresentati come “gli altri”: intolleranti, arretrati, incapaci di integrarsi nella società liberale e ultimamente una minaccia per la cultura democratica. Forti del sostegno al matrimonio gay e alla partecipazione dei cittadini LGBTQIA alle forze armate, questi stessi cittadini si percepiscono come legittimati dallo stato e ciò facilita ciò che Puar definisce “eccezionalismo”, ovvero un senso di superiorità e singolarità che nasce dal vedersi come tutori della democrazia e dei diritti umani.

Pinkwashing e rainbow washing

Come abbiamo visto, gran parte della strategia di pinkwashing attuale finisce con il focalizzarsi sul tema omofobia, cercando di accattivarsi il target LGBT. Proprio in questo senso, l’operazione di promozione di un prodotto in chiave gay friendly, indirizzato a consumatori open-minded, viene spesso indicata col termine più specifico di rainbow washing, e in questo senso il pinkwashing viene riservato esclusivamente alla dinamica dell’emancipazione femminile.

Poiché è la stessa comunità LGBT a farne uso, si può tuttavia dire che il termine pinkwashing sia sinonimo di rainbow washing.

L’ultima domanda che ci poniamo è questa: è davvero tutto sbagliato? In fondo, secondo la logica del “bene o male, purché se ne parli” e del fatto che se non sei rappresentato, allora non esisti (neppure in pubblicità) si potrebbe comunque considerare il pinkwashing come un mezzo per porre l’accento su tematiche che, altrimenti, finirebbero irrimediabilmente con l’essere ignorate. Vi proponiamo la riflessione conclusiva di Elisa Ghidini in un articolo per Ultimavoce:

[…] Se negli anni Novanta la pubblicità rappresentava essenzialmente uomini bianchi di mezza età e in camicia, con una moglie giovane e avvenente in cucina e bambini sorridenti con i boccoli biondi, oggi le cose stanno gradualmente cambiando. La realtà è questa: se non sei rappresentato, è come se non esistessi. Anche nella pubblicità, sia essa pinkwashing o meno.

Si può fare buon uso quindi anche di uno strumento come il marketing, con la consapevolezza che si rimane comunque all’interno di logiche capitalistiche. Magari un minimo di quel messaggio positivo verrà assorbito anche da chi guarda e non compra . Se poi si tradurrà invece in acquisto, quel messaggio sarà stato funzionale al capitalismo stesso. Ma, forse, con maggiore consapevolezza. C’est la vie.

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