"La droga è terribile perché democratica, colpisce tutti, anche le donne incinte"

In Italia un terzo della popolazione fra i 15 e i 64 anni ha sperimentato sostanze illegali almeno una volta nella vita. Il quadro che emerge da quest'intervista con la giornalista Angela Iantosca è davvero spaventoso, ma per fortuna qualche storia di riscatto c'è.

La piaga della tossicodipendenza è una di quelle di cui si parla da anni sottolineandone la drammaticità, ma che pure sembra sempre, tristemente attuale, ieri come oggi.

Negli anni la sensibilità sociale al tema è indubbiamente cresciuta, mentre non altrettanto pare essersi abbassato lo stigma rispetto alle persone affette da dipendenze di qualunque genere. Tanto che l’essere “addicted” si accompagna spesso a fenomeni di emarginazione ed esclusione, che precipitano il soggetto in un vero e proprio stato di abbandono che rende, naturalmente, ancora più complicato il processo di uscita da quella situazione.

Esistono realtà come Exodus, fondata da Don Antonio Mazzi, e prima ancora San Patrignano, che hanno cercato di fornire supporto a giovani e meno giovani, caduti nella rete della dipendenza, per agevolare il loro recupero e reinserimento in società. C’è chi, come la conduttrice Andrea Delogu, ha persino parlato in maniera molto dettagliata dell’infanzia vissuta presso la comunità nata per volontà di Vincenzo Muccioli. Ma anche chi, dopo essere entrato in quella realtà per lavoro, ha voluto scriverne un libro, come nel caso della giornalista e scrittrice Angela Iantosca, autrice di Una sottile linea bianca – dalle piazze di spaccio alla comunità di San patrignano, edito da Perrone Editore, che abbiamo intervistato proprio per avere un quadro aggiornato e concreto della tossicodipendenza nel nostro Paese oggi.

Da dove nasce lo spunto per realizzare un libro del genere, con un argomento tanto impegnativo?

A marzo 2015 sono entrata per la prima volta nella comunità di San Patrignano per realizzare un servizio per la trasmissione di Rai Uno La Vita In Diretta, della quale ero inviata. Quando ho varcato quel cancello, incontrando i 1300 ragazzi in cammino, ho provato un’emozione simile a quella che avevo sentito quando avevo cominciato ad occuparmi e scrivere di donne e minori di ‘ndrangheta qualche anno prima – ci racconta Angela, autrice di Onora la madre, uscito nel 2013 per Rubbettino, e Bambini a metà, pubblicato da Perrone nel 2015 –  Ho sentito il loro dolore e la loro forza, la fragilità e la determinazione, ho sentito la fatica e la necessità di uscire da quell’oblio creato dalle sostanze per cominciare a dirsi la verità.

Le emozioni provate in quel primo incontro si sono trasformate immediatamente nell’urgenza di scrivere di quei ragazzi che, dopo anni di tossicodipendenza, hanno deciso di riprendersi la vita. Dopo aver espresso alla comunità il mio desiderio di far conoscere le loro storie, ho avuto la possibilità di dormire in comunità, di stare con i ragazzi, di mangiare a colazione, pranzo e cena con loro, di parlare con centinaia di persone, di trascorrere insieme il Natale e anche il capodanno.

Nel corso degli anni, ho quindi raccolto una quindicina di storie di ragazzi di diversa estrazione e provenienza e ho approfondito il tema studiando i dati, incontrando gli esperti e ‘frequentando’ le piazze di spaccio in diversi momenti, da sola o con le Forze dell’Ordine, così da poter raccontare qual è la situazione in Italia, per far comprendere che la droga è democratica, che non si ferma di fronte ai titoli di studio o alla ricchezza, che riguarda tutti, le periferie e il centro delle città, i quartieri disagiati e quelli più esclusivi.

Da qui il titolo Una sottile linea bianca che, pur volendo far riferimento alla striscia di cocaina, intende indicare il labile confine che c’è tra chi non ha mai fatto uso di sostanze e loro“.

Qual è il quadro che emerge dai dati che hai raccolto e analizzato?

“In Italia un terzo della popolazione fra i 15 e i 64 anni ha sperimentato sostanze psicoattive illegali almeno una volta nel corso della propria vita e uno su dieci (circa 4 milioni) lo ha fatto nel corso del 2017. Il 34% degli studenti italiani ha provato almeno una sostanza psicoattiva illegale nel corso della propria vita e il 26% lo ha fatto nel corso del 2017. La sostanza più usata è la cannabis. Nel corso del 2018 in Italia i decessi riconducibili all’abuso di sostanze stupefacenti rilevati dalle Forze di Polizia o segnalati dalle prefetture sono stati 334, con un più 12,84% rispetto al 2017. Questo per quanto riguarda i dati.

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A questo si aggiunge che l’età media si è abbassata a 14 anni, nonostante quasi tutte le storie che ho incontrato – e sono centinaia – raccontano di un approccio alla sostanza già a 12. Non solo: sempre più si sta diffondendo la poliassunzione di sostanze. Questo significa che i ragazzi non hanno una sostanza preferita, ma prendono ciò che trovano di fronte a sé. Inoltre più del 60%, secondo i dati dell’Osservatorio sulle tossicodipendenze di San Patrignano, non fa uso delle siringhe, cosa che fa diminuire la percezione da parte degli interessati di essere tossicodipendenti, perché nell’immaginario collettivo il tossico è quello che fa uso di siringhe. Altro aspetto è sempre il maggiore coinvolgimento delle donne”.

La giornalista Angela Iantosca (Fonte: Angela Iantosca)

A questo proposito, un capitolo del tuo libro parla delle madri tossicodipendenti e dei neonati in crisi d’astinenza.

Ho avuto modo di incontrare ragazze che hanno scoperto di essere incinte quando si drogavano ancora e che hanno continuato a farlo. Perché la droga, quando entra nella vita delle persone, non dà spazio ad altro che a se stessa. Condiziona ogni gesto, ogni attimo della giornata e soprattutto cancella ogni emozione. Ci vuole un serio percorso di disintossicazione del corpo e soprattutto dell’anima per poter ritrovare il piacere della vita, delle piccole cose, e anche del sorriso di tua figlia.
Perché se non si comprendono le radici della dipendenza, la sola disintossicazione fisica non servirà a niente.

La ragazza, la cui testimonianza è inserita nel libro, era incinta da quattro mesi quando lo venne a scoprire. Anche il ragazzo si drogava ed entrambi decisero di continuare, nonostante la gioia della notizia e del loro ‘amore’. Quando nacque la bambina, lei ci provò a fare la brava, a smettere, ma fu più forte di lei. E così continuò insieme al fidanzato finché la scoprirono e la costrinsero a entrare in comunità. Dove ha compiuto un lungo percorso prima di poter uscire nuovamente. Non ci si pensa, ma è enorme il male che si può fare a un esserino appena concepito, un male che può influire nella vita futura del piccolo”.

Che idea ti sei fatta dei ragazzi che hai ascoltato e dalle loro storie? Pensi che la loro tossicodipendenza segua lo stesso fil rouge o ci sono esperienze troppo soggettive per inquadrare il problema in maniera univoca?

Come dicevo sopra, la droga è democratica e le storie vanno a coprire tutte le casistiche possibili: ci sono ragazzi che hanno padri assenti, madri presenti, genitori che si sono ammalati, genitori suicidi, ma anche genitori che hanno provato a indicare una strada. Ci sono ragazzi difficili che provengono da contesti complessi, ma anche ragazzi normali, cresciuti nel benessere e provenienti da quelle famiglie cosiddette normali.

In tutti i casi quello che si esprime è un urlo disperato per chiedere aiuto. I ragazzi lo fanno in modo sbagliato, ma spesso non trovano altre modalità di comunicazione se non quella di farsi del male per mostrare il proprio malessere”.

Che strumenti ha a disposizione lo Stato per curare questi ragazzi?

I Serd (servizi pubblici per le dipendenze patologiche del Sistema Sanitario Nazionale) che sempre più lavorano in accordo con le comunità di recupero. Qui l’accesso è libero e le prestazioni gratuite, nel rispetto della privacy, fatta eccezione per i minori. Ovviamente ogni caso viene studiato singolarmente da una équipe che valuta il percorso migliore da suggerire“.

Angela è però intenzionata a far avere sempre più risonanza all’argomento: dopo la pubblicazione del libro, nel marzo 2018, la comunità di San Patrignano le ha chiesto di trasformare le storie in monologhi per il WeFree, progetto di prevenzione alle tossicodipendenze della comunità che ogni anno fa incontrare a San Patrignano 50 mila ragazzi.

In scena ci sono io che racconto di quando ero ragazzina e a scuola si organizzavano convegni in cui si parlava spesso di droghe – erano gli anni Ottanta e si viveva con la paura che potesse accadere ciò che si leggeva ne ‘I ragazzi dello zoo di Berlino’ -, e poi il mio incontro, come giornalista, con le piazze di spaccio qualche anno dopo e l’incontro con la comunità che mi ha spinto a scrivere; con me sul palco uno o due ragazzi della comunità che leggono alcune storie, che si intrecciano con le mie parole e che fanno comprendere a chi ascolta cosa si prova, come si finisce nella tossicodipendenza, quali sono le dinamiche e come se ne può uscire. Al termine intervisto i ragazzi che raccontano la loro di storia.

Devo dire che stiamo girando moltissimo: siamo stati a Cuneo, Perugia, Sanremo, Isola della Scala, Lanciano, Matera, Ferrara, a Troina e Modica. E poi lo abbiamo portato in scena più volte in comunità, anche durante il We Free. Ogni volta è una grande emozione e un momento di grande crescita per tutti. Attraverso la testimonianza diretta e il mio lavoro di giornalista riusciamo a rispondere alle tante domande dei ragazzi, ma anche dei professori e dei genitori. E quello che emerge è una gioventù complessa, che a volte fa fatica a esprimere le proprie emozioni, le paure, che teme di essere isolata rispetto alle scelte del gruppo, che sa moltissime cose ma in modo superficiale, che pensa di essere invincibile, ma che forse vorrebbe solo essere ascoltata. Davvero.

Dall’altra degli adulti che fanno fatica sempre più a intercettare i pensieri dei giovanissimi e che non sanno quale sia l’approccio migliore per evitare di far loro del male o di essere troppo deboli… Sono dinamiche complesse quelle che si evidenziano ogni giorno, che confermano sempre più ciò che dicono i ragazzi che hanno completato il percorso in comunità e che sono tornati a vivere:

cari giovani parlate, fatevi capire, non abbiate paura di dire ciò che vi tormenta dentro; cari adulti imparate ad ascoltare davvero, provate a scendere dal piedistallo, provate a cogliere i segnali, non siate l’un contro l’altro armati”.

Il prossimo appuntamento teatrale è a Roma, il 27 novembre. Nel frattempo, Angela ci ha portato due delle storie dei ragazzi da lei raccolte.

Se sei gatto non sei cavallo – Giovanni di Lamezia Terme

Giovanni nasce in Umbria, dove trascorre un’infanzia serena. Mamma insegnante e papà nel mondo delle assicurazioni, la sua vita è senza difficoltà. A un certo punto con la famiglia si trasferisce in Calabria. Senza un perché. Ma quello spostamento lo traumatizza. A Lamezia è tutto diverso, non riesce a capire la mentalità, la violenza che si respira tra i banchi di scuola, la necessità di affermare sempre il proprio potere. Giovanni si sente solo, ma per fortuna al suo fianco c’è Francesco che lo difende sempre. Ad aiutarlo anche la musica, la sua passione. Ed è il papà a instillargli l’amore per la chitarra.

Giovanni cresce, le cose a scuola vanno meglio e comincia anche a suonare nei locali. Soprattutto musica punk. Lui e i suoi amici si sentono forti, belli e dannati. E vogliono imitare le grandi star. È così che cominciano. Prima con l’alcol. Poi con le canne che da quel momento scandiscono il ritmo delle giornate di Giovanni e dei suoi amici. Dopo il Liceo non prosegue con l’Università e va a Firenze con un altro amico. Ma a Giovanni della musica non interessa tantissimo: quello che vuole fare è sconvolgersi. Di giorno lavora, poi suona e dorme in macchina, ma spende tutto in alcol e fumo. È così che torna a Lamezia, a casa dei genitori. Ogni tanto lavora, continua a suonare e si comporta come un adolescente.

Frequenta anche i luoghi degli adolescenti. Fuma sempre le canne, ma non gli bastano più allora passa all’eroina che si inietta già la prima volta. E quello che sente è ciò che desidera sentire: un plaid caldo che lo avvolge e lo abbraccia, caldo come una donna. Ma la pace infinita dura poco, un mese, un mese e mezzo. Poi cominciano il dolore, le crisi d’astinenza, la ricerca continua della roba per non star male. Niente riesce a farlo stare bene. ù

Giovanni spende 50 euro al giorno e si fa due dosi quotidiane. Va avanti così per dodici anni tra sofferenza e piacere, litigi in famiglia, botte, storie d’amore o pseudo-amore finite male, perquisizioni della Polizia. Finché viene fermato per aver rubato e il padre, di fronte alla verità, ai cassetti pieni di siringhe e fazzolettini sporchi di sangue, gli chiede di entrare in comunità. Giovanni accetta e dopo essersi disintossicato, entra a San Patrignano. Dove scava dentro di sé per provare a ritrovarsi, arrivando a capire chi è veramente, ad accettarsi per ciò che è e, a volersi anche bene, perché “se sei gatto, nella vita, non puoi essere cavallo”…

 Sono viva grazie a mia figlia – Alessia di Perugia

Alessia è di Perugia. Il papà fa il fornaio e la madre se n’è andata. Le piace ballare in discoteca e una sera, mentre balla, conosce il suo amore: ha 17 anni più di lei e spaccia pasticche. Si cominciano a frequentare, si sballano insieme, ma non è amore, anche se credono lo sia. Dopo qualche tempo si perdono. Ma un giorno Alessia, mentre si trova a casa da sola, si fa e si sente male: il padre la trova riversa sul pavimento e la porta in ospedale.

Qui le dicono che è incinta di quattro mesi. Alessia fa mente locale e capisce che lo spacciatore è il padre della bambina. Appena esce dall’ospedale lo comunica a suo padre che la incoraggia ad affrontare tutto. Intanto contatta il padre della bambina con il quale decide di tentare di nuovo a stare insieme.

Ma non smettono di drogarsi, in fondo se alla bambina non è successo niente in quei mesi, quando lei non sapeva che esistesse, perché dovrebbe succederle qualcosa ora? È così che arriva al nono mese e al parto che affronta in crisi d’astinenza. Quando prende in braccio la bambina, Alessia non sente emozioni. Poi torna a casa e ci prova a fare la brava, ma dura poco. Ricomincia come sempre a drogarsi, anche davanti a lei, convincendosi che sua figlia non ha bisogno di nulla, se non di essere cambiata e allattata. Finché la famiglia del compagno scopre tutto e interviene il padre: se non va in comunità le tolgono la bambina. È così che entra a San Patrignano, dove rivede la sua piccola dopo otto mesi.

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