L'amore per Mariangela Melato: "Ci siamo amati per tutta una vita, anche da lontano"

È scomparsa nel 2013 per un tumore al pancreas, ma Renzo Arbore, l'uomo che l'ha amata tutta una vita, anche da lontano, non ha mai smesso di pensarla. Mariangela Melato è stata il suo più grande amore, la donna che gli ha insegnato tanto, anche a soffrire con grazia e dignità.

Se ci fosse una canzone per descrivere il loro amore sarebbe senz’altro Io vorrei, non vorrei, ma se vuoi.

Perché la lunga storia che ha legato Renzo Arbore e Mariangela Melato, prima – per dieci anni – come coppia e poi, per 42 anni, come amici, è iniziata proprio con quel brano, allora inedito, di un giovane Lucio Battisti, quando Arbore, una sera in cui erano tutti riuniti a casa di Agostina Belli, prese in mano una chitarra. Il cantautore scelse di cantare quel pezzo agli amici, e nel gruppo c’erano anche loro, Renzo Arbore e Mariangela Melato: lei era un’attrice già affermata, soprattutto in teatro, lui un giovane disc-jokey emergente, che lui stesso definisce “ancora molto foggiano e molto meridionale“. In quella serata, accompagnati dalle parole di Battisti, le loro mani si strinsero, in silenzio, dopo lunghi sguardi che non rendevano necessaria alcuna parola. Venivano entrambi da relazioni di poco conto, iniziarono la loro storia insieme, una storia che li avrebbe tenuti insieme per un decennio, dal punto di vista amoroso, una vita da quello umano.

Lui, ha raccontato in varie interviste, l’aveva notata una sera al Sistina, negli anni Settanta; i suoi passi di danza, quel modo di muoversi “come una nera”, disse poi, l’avevano come stregato.

Tra tante signore cotonate, spuntò un ciuffo di capelli bicolore, un volto bistrato e due occhi grandi come fari – ha raccontato Arbore a Repubblica – Il suo tratto esistenzialista mi colpì così tanto che riuscii a vincere la mia naturale timidezza e la invitai a una festa musicale a casa mia.

Quello il principio, la serata a casa di Belli il suggello del loro sentimento reciproco. Un amore di quelli perfetti, romantici, da sogno, fatto di gite sulla Cinquecento malandata di lui, tra i localini “off” di Trastevere e il teatro della compagnia D’Origlia Palm, senza nessuna velleità particolare, senza nessun divismo, perché Mariangela Melato era una pura, dotata di una grazia e di una nobiltà d’animo che all’uomo che l’ha amata tutta una vita erano evidenti.

La musa di Lina Wertmüller, protagonista di tante sue commedie ritratto di un’Italia operaia e agrodolce come  Mimì metallurgico ferito nell’onore, per cui vinse un Nastro D’argento, e Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto, ha amato ed è stata amata anche dopo la separazione, dolorosa, sofferta, di cui però ha sempre cercato di non far mai sentire il peso al “suo” Renzo.

La loro storia è finita quando insieme i due, dice Arbore, hanno smesso di ridere.

Abbiamo riso tutta la vita. Ridevamo delle cose serie e delle cose importanti. E perciò una volta ci dicemmo: quando smettiamo di ridere, è meglio lasciarsi. Nell’81 Mariangela partì per lavoro per gli Stati Uniti. Restammo lontani per un anno e mezzo. E pian piano vennero meno la complicità, il divertimento. Forse sentivamo anche di avere la vita davanti, il grande successo doveva ancora arrivare. E stupidamente decidemmo di lasciarci. Sempre con il sorriso.

Lo stesso sorriso con cui hanno cercato di affrontare ogni passo della loro vita, insieme e non, lo stesso con cui Mariangela Melato “dribblava” le domande impertinenti sulla volontà di sposarsi con Renzo Arbore, nonostante il matrimonio, l’ideale di una vita “normale”, felice e semplice, sostiene lui, fosse la cosa a cui l’attrice maggiormente ambiva, più del successo, molto più dei premi e dei riconoscimenti.

Sotto sotto Mariangela avrebbe voluto una vita normale, un amore solido, un matrimonio, ma lei l’ha negato fino alla fine. Un’amica ci provocava anche nell’ultimo periodo. Renzo sposeresti Mariangela? “Subito!”, dicevo io. E lei: “Noo, mai…”. Giravo con la lista dei documenti preparata da mia madre. Ricordo la gioia di Mariangela quando le regalai il bracciale di mamma a forma di vipera. Lei mi ripagava con regali straordinari come la panchina verde da giardino con su scritto Renzo e Mariangela e un cuoricino. Di recente ce lo siamo domandati: se ci fossimo sposati…? La vita è andata in un altro modo.

Già, binari diversi che però non sono mai stati in grado davvero di separarsi del tutto; anche perché, dice Arbore, molte delle cose che ha imparato le deve proprio alla sua musa, all’amata che idealmente non ha realmente mai lasciato.

La verità è che Mariangela era una persona superiore, nobile nel senso vero del termine. Una qualità che avrei messo a fuoco soltanto più tardi: una nobiltà d’animo che le impediva di cedere ai compromessi, di ossequiare i potenti, di rubare i primi piani come facevano tutti al cinema, di essere libera dal danaro. Senza Mariangela sarei stato un uomo diverso. […] Mi ha fatto crescere, insegnandomi il rigore e la fatica. Se ho fatto cose buone nella vita, se mi sono comportato in un certo modo, lo devo al codice morale di Mariangela. Si deve studiare tanto, si deve lavorare moltissimo per migliorare, per sprovincializzarsi, per essere bravi. E lei era bravissima. […] Sono riuscito a dirglielo una sera a Monza, davanti a una platea affollata. Non stavamo più insieme, lei venne al mio concerto. Ne fu felice.

Proprio quei due destini irrimediabilmente uniti, nonostante le vite diverse, la lontananza, le carriere e tutte le altre storie, si erano persino ritrovati, fino a quando qualcosa di più grande, e terribile, ha posto fine alla loro storia: la malattia di lei, quel cancro al pancreas che l’ha portata via l’11 gennaio del 2013, a 71 anni. Quel lutto ha colpito profondamente Arbore, che nel ricordo immediatamente successivo alla sua morte ha pianto, la voce rotta dalle lacrime, mentre raccontava un aneddoto su uno degli ultimi giorni assieme, durante una visita alla clinica dove lei era ricoverata.

Cantavamo insieme, era una vecchia canzone degli anni ’40, mi pare si intitoli “Americano non posso cantar”. E lei era felicissima, perché si ricordava tutte le parole… e mi prendeva in giro perché io invece…

Mariangela Melato, ha raccontato Arbore con l’ironia tipica di chi ha amato con tutto se stesso una donna, non sapeva cucinare.

Invece sapeva cantare benissimo e anche ballare, aveva nel sangue lo swing di una donna di colore. Quando assistevi alle sue performance, ti dimenticavi che fosse bianca.

Ma oltre alle doti artistiche che ne hanno fatto una delle più grandi interpreti del cinema italiano, Mariangela Melato aveva soprattutto una dote, magnetica per Arbore: era forte, una guerriera, pur dotata di una sensibilità straordinaria e di una capacità di emozionarsi per le piccole cose che agli occhi di lui la facevano sembrare un’eterna bambina. Lo è stata fino in fondo, anche durante la malattia.

Ha combattuto come una leonessa contro il male – ha detto Arbore al Corriere – Tre anni e mezzo con un coraggio titanico, senza un cedimento, come una virago, una guerrigliera che ogni mattina, al risveglio, ricominciava da capo e prendeva in mano la situazione con un’energica positività. Perché questo va detto, va data una speranza alle persone che, come lei, sono colpite da questa malattia: con la forza di volontà, con la positività è anche possibile sconfiggerla.

Non è successo a lei, purtroppo, ma quel senso del rigore, quella serietà mai troppo autoritaria o antipatica le hanno dato il coraggio di provarci fino in fondo, con dignità, fino a una serena accettazione. L’hanno aiutata persino a lavorare sino all’ultimo o quasi, sul palco di quel teatro tanto amato, il Valle, dove, dice Arbore, ha travasato il suo dolore nei tormenti di Marguerite Duras, a cui dava vita in quel momento; lo stesso teatro che il musicista vorrebbe tanto fosse intitolato a lei.

Ho trovato talmente ingiusta la sua malattia che mi sento colpevole di stare bene. E oggi che faccio teatro anche io con l’Orchestra Italiana, di fronte agli applausi penso che sia Mariangela a proteggermi da lassù.

A proteggerlo, o forse ad applaudirlo insieme alla folla; o forse, ci piace pensare, ad intonare Io vorrei, non vorrei, ma se vuoi.

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