Ci risiamo. Un ennesimo colpo basso all’emancipazione femminile e al femminismo.  Negli Stati Uniti fa scalpore la decisione di Anne Marie Slaughter, braccio destro di Hillary Clinton. Non ce la faceva più a sostenere quegli orari “da uomo”,  a sentirsi sempre in colpa, a metà, costretta lontano dalla sua famiglia e i suoi figli per la maggior parte del tempo, impegnata in riunioni, meeting, viaggi. Alla fine ha lasciato il suo prestigioso incarico, duramente conquistato tra l’altro, a luglio di quest’anno. Da allora partecipa a conferenze, trasmissioni, rilascia interviste, presto uscirà un suo libro al riguardo.

Non è un problema nuovo.

A cosa ha portato l’emancipazione femminile?

Ci ha portato a lavorare, in particolare come segretarie, impiegate, operaie, commesse. Lavori che tutto sommato, non raggiungono i vertici e non implicano impegni stra-ordinari. Proprio perché così, possiamo gestire anche la famiglia. Altro lavoro. Altro impegno. No. Qualcosa non torna. Sappiamo bene che le donne con incarichi importanti si contano sulle dita di una mano, vuoi per i pregiudizi maschili, vuoi per i motivi sopracitati. Per quanto le donne si sforzino, i conti non tornano mai. La Slaughter cita il time macho, il tempo maschio che non lascia scampo. Orari massacranti, riunioni, viaggi, impegni dell’ultimo minuto. Un lavoro a misura d’uomo. In cui, volenti o nolenti, la donna non c’entra. Non ce la fa. E quindi fa marcia indietro. Anche se ha lottato, lavorato duramente, anche se è intelligente. Una scelta va fatta, perché non si può fare tutto. Ma perché l’uomo può e noi no quindi? Lo diciamo ancora oggi, nel 2012. Una domanda sorge spontanea. Ma la donna, da cosa si è emancipata? Perché sembra che non sia avvenuto niente. Il lavoro continua ad essere regolamentato da ritmi ancestrali del maschio che lavora.

La donna, semplicemente, si è presa su anche il fardello del lavoro dimenticandosi di educare la famiglia e in particolare l’uomo, a fare a meno di lei. Ha dimenticato che prima deve insegnare alla società a non farla sentire in colpa perché lavora e vuole la sua carriera. Vuole rendersi indipendente ma si dimentica di istruire un maschio a rispettare la volontà femminile e non ad ucciderla per affermare ancora una volta la propria supremazia. Semplicemente, più che emancipata, la donna ha voluto rendersi più simile all’uomo, dimenticando o forse volutamente omettendo che non sarebbe stata compresa,  complice il perenne senso di responsabilità; dopo millenni di supremazia maschile, come è possibile pretendere di lavorare come un uomo pur sapendo di avere sempre una famiglia? E noi donne siamo pronte ad un cambio così repentino? Prima di tutto era necessario rivoluzionarla, partire dalla base, imparando a dividere i compiti con l’uomo. Ma ciò non è avvenuto. Il maschio parla, sbrigativo “Hai voluto la parità? Ora lavora”. Ha ragione, sebbene non sappia cosa significhi. Non abbiamo calcolato tutto. La parità va diffusa dalle fondamenta, va insegnata, va coltivata. Non si può “pretendere” il lavoro prestigioso se prima di tutto la società ci vede come “angeli del focolare”. Non è giusto costringerci ad una scelta, ma forse è avvenuto tutto troppo in fretta e per molti motivi, il processo di emancipazione si è ridimensionato e bisogna ricominciare, per cercare di impostare la nostra vita non come delle Wonder Women ma come delle persone che vogliono la felicità in tutti i campi. La condizione attuale della donna implica una discussione ben più ampia di questo semplice scorcio di vita vissuta ma è importante prendere coscienza che è necessario agire su più fronti, perché una donna avrà sempre delle esigenze diverse dall’uomo e adattarci semplicemente ad un mondo maschile non è emancipazione, bensì rassegnamento.

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