Ius corrigendi: storia del diritto dell'uomo di "correggere" la moglie con la violenza

Quante volte abbiamo sentito dire che "una sberla, ogni tanto, non fa male"? E quante volte, più o meno scherzando, abbiamo udito ragazzi e uomini affermare che, "con due calci e due schiaffi", la "propria donna" avrebbe "capito la lezione"? Sicuramente, troppe. Perché? Queste frasi sono le vestigia di qualcosa di più antico, che affonda le proprie radici nella civiltà romana: lo ius corrigendi. Vediamo di che cosa si tratta nel dettaglio e perché ve ne sono ancora tracce nella nostra società.

Quante volte abbiamo sentito dire che “una sberla, ogni tanto, non fa male”? E quante volte, più o meno scherzando, abbiamo udito ragazzi e uomini affermare che, “con due calci e due schiaffi”, la “propria donna” avrebbe “capito la lezione”? Sicuramente, troppe. Perché? Queste frasi sono le vestigia di qualcosa di più antico, che affonda le proprie radici nella civiltà romana: lo ius corrigendi.

Vediamo di che cosa si tratta nel dettaglio e perché ve ne sono ancora tracce nella nostra società.

Radici dello ius corrigendi nel diritto romano

Lo ius corrigendi, letteralmente il “diritto di correzione”, trae origine dal diritto romano e si delinea intorno alla figura del pater familias, il “capofamiglia” al quale spettava il potere e il controllo su tutti i membri della sua famiglia, dalla madre ai figli, fino ad altri soggetti a lui subordinati.

In base a una serie di ricostruzioni è, infatti, emerso che, tra le responsabilità assegnate al pater familias, ci fosse anche quella di “correggere con la forza” la moglie recalcitrante, purché non si giungesse a causarle “perdite ematiche”, ovvero ferite molto gravi. Un potere che ha origini lontane e trae spunto dalla differenziazione aristotelica dei compiti del capofamiglia, il quale aveva l’incarico e il dovere di mantenere l’ordine all’interno della famiglia, intesa come una parte di un tutto più ampio, ossia l’ordine sociale nel complesso.

Come precisa la giornalista Chiara Artico:

La potestà correzionale era un retaggio antico, discendente da una concezione dell’istituzione familiare in cui il marito, per natura più idoneo a comandare, reggeva la propria casa con un’autorità corrispondente a quella che un uomo politico esercita nella gestione dello Stato. Nel mondo romano, la signoria sui componenti della familia – non solo la sposa, ma anche i discendenti e i servi – era assoluta e fondata sull’indiscusso riconoscimento della superiorità maschile.

Con il procedere del tempo e dei secoli, e soprattutto con il Cristianesimo, vi è un invito a eludere sempre di più le percosse i maltrattamenti immotivati e/o eccessivi, sebbene sia sottaciuta la possibilità di ricorrere a forme più o meno tenui di essi nel caso in cui ci si ritrovasse di fronte a donne particolarmente riottose o da “mettere in riga”. Insomma, donne emancipate, o che tentavano di esserlo.

Ed ecco, quindi, illuminarsi quel confine labile che (per molti) sussiste tra “correzione legittima” e “violenza”, dove, con la prima espressione, si intendevano (e ammettevano) punizioni fisiche lievi, coercizioni morali, rimproveri severi, insulti e affini. Un confine che, però, ovviamente non c’è, e che ancora oggi trova sfogo in una sola parola: abuso.

Ius corrigendi nell’età moderna: tra diritto penale e civile

Con lo svilupparsi dell’età moderna e delle sue correlate codificazioni, lo ius corrigendi ha continuato a persistere, pur non trovando più una forma palese nei codici civili e penali.

Per quanto concerne il caso dell’Italia, per esempio, il Codice penale promulgato nel 1930, noto anche come Codice Rocco – dal nome del Ministro di Grazia e Giustizia Alfredo Rocco, che ne curò la redazione sotto il regime fascista -, non cita esplicitamente il diritto del marito di “correggere” con maltrattamenti e violenza la propria moglie, ma è evidente che il retaggio culturale permeasse ancora in maniera capillare la struttura normativa e l’applicazione giudiziaria.

Molte delle norme del Codice Rocco, infatti, sono ispirate a una concezione patriarcale che vede(va) una netta disuguaglianza tra uomo e donna all’interno della famiglia e, perciò, rigidi schemi coercitivi e maschilisti che ammettevano una cieca subordinazione della donna al marito.

Idea che si protrae fino all’articolo 150 del Codice Civile (prima della riforma del 1975), che prevedeva la possibilità di separazione tra i coniugi in caso di “eccessi, sevizie e gravi ingiurie”, riconoscendo in modo implicito che nella vita matrimoniale fosse consueta la presenza di “correzioni quotidiane”, afferenti a un campo di abusi e violenze “piccole”, “meno gravi”, “accettabili”.

L’abolizione e le eredità simboliche: verso l’uguaglianza dei coniugi

Come ricorda l’autrice e monologhista Teresa Cinque, la svolta arriva, finalmente, nel 1956, quando la Corte di Cassazione dichiara che al marito non spetta, nei confronti della moglie e dei figli, lo ius corrigendi previsto nell’articolo 571 del Codice Penale, eliminando, dunque, la concezione di una sorta di “autorità coniugale” che giustificava un potere correttivo nei confronti, in particolare, della donna.

A partire da questo momento, ogni forma di violenza perpetrata all’interno del nucleo familiare doveva essere valutata non più come un esercizio del “potere coniugale”, bensì in base alle norme generali sui reati contro la persona.

Decade in questo modo – almeno ufficialmente – la disuguaglianza all’interno della famiglia. Ma è davvero così? L’abolizione normativa, come è ovvio, non ha condotto a una trasformazione culturale significativa, immediata o totale. Gli episodi di violenza, maltrattamento e abuso, infatti, continuano a essere ritenuti fatti privati, domestici, e, pertanto, invisibili e, nella maggior parte dei casi, privi di sanzione.

Il paradigma dell’uomo che ha il diritto e il dovere di “correggere” la donna persiste incrollabile e incontrollato nelle azioni, nei discorsi, nei comportamenti e nei retaggi quotidiani di moltissime persone. E sfocia inevitabilmente in violenza domestica, coercizione morale, abuso e controllo psicologico, minimizzazione della sofferenza delle vittime e, nei casi più gravi, nei reati spia e nel femminicidio.

Al punto che la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 31534 dell’8 giugno 2022, ha ribadito che quando l’uso della forza o della coercizione diviene sistematico o sproporzionato, si configura il reato più grave di maltrattamenti contro familiari.

A ricordare che no: l’uomo non può e non deve correggere nessuna donna. Ma solo se stesso.

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