“Meglio morta che divorziata”: il femminicidio di mafia di Lia Pipitone, con l’ok del padre boss

Lia Pipitone venne freddata 40 anni per aver scelto di vivere la propria vita. A dare l'ok al delitto il padre, boss di Cosa Nostra. Lei e il figlio Alessio hanno ottenuto giustizia solo dopo 35 anni.

Era una ribelle, Rosalia “Lia” Pipitone, un’anticonformista, una donna emancipata e libera.

Caratteristiche, queste, che facevano storcere il naso al padre Nino, uno dei boss  dell’Acquasanta, clan storico della mafia palermitana, qualità che proprio non gli piacevano della figlia, soprattutto quando nel quartiere cominciarono a circolare voci dell’infedeltà di lei nei confronti del marito Gero Cordaro e di una sua presunta tresca con un certo Simone Di Trapani.

Andiamo con ordine: appena diciottenne Lia Pipitone scappa di casa per sposarsi col ragazzo conosciuto tra i banchi di scuola di cui si è innamorata, ma il padre la trova e la costringe a tornare a Palermo. Lì lei resta sposata con Cordaro e ha un figlio, Alessio, ma dopo poco tempo il desiderio di libertà torna irrefrenabile e in paese si comincia a vociferare di una relazione, ben più di un’amicizia, con Di Trapani.

Troppo il disonore causato alla famiglia da quella figlia così sovversiva, noncurante del nome dei Pipitone e di quanto i suoi gesti, quella sua voglia di libertà e indipendenza, gettassero fango sulla reputazione che, si sa, fra le famiglie di Cosa Nostra è tutto.

Così, Nino Pipitone acconsentì, con un’alzata di spalle e forse neppure una lacrima versata nel fazzoletto, alla sua eliminazione; perché l’onore, per un mafioso, è ben più importante dei legami di sangue, specie quando questi vengono traditi da comportamenti giudicati inaccettabili e offensivi verso la famiglia, e quelli che Lia stava avendo lo mettevano profondamente in imbarazzo.

Lia Pipitone venne uccisa, a soli 25  anni, il 23 settembre 1983, non direttamente dal padre, che però fu ben disposto ad accogliere la richiesta del capo clan, Nino Madonia, di sbarazzarsi di quella ragazza troppo ribelle, e a inviare, in osservanza dei precetti stabiliti da Cosa Nostra, due sicari, capimafia del quartiere, per occuparsi del suo omicidio, fatto passare come un tentativo di rapina finito male.

Secondo le regole di Cosa Nostra – dirà anni dopo il pentito Francesco Di Carlo – gli comunicò la decisione di risolvere il problema eliminando la figlia, circostanza a cui Pipitone non si sottrasse nel rispetto della mentalità di Cosa Nostra che condivideva in pieno.

Il giorno dopo, anche il suo presunto amante “volò” giù dal quarto piano.

In un periodo in cui Totò Riina e i grandi capi delle più importanti famiglie mafiose portavano avanti la loro personale lotta allo Stato, uccidendo il giudice Rocco Chinnici, il generale Dalla Chiesa, e moltissimi altri esponenti della giustizia e delle forze dell’ordine, Lia Pipitone morì per il suo desiderio di vivere la vita che voleva, di amare chi voleva, di spezzare le catene che la tenevano inchiodata a quella famiglia di cui non si sentiva parte. Eppure, non è meno vittima di mafia delle tante altre che per mano di Cosa Nostra persero la vita.

Per anni l’omicidio di Pipitone passò sotto silenzio, anche per la complicità del marito della giovane, che non volle mai andare contro il suocero. Solo nel 2012 le dichiarazioni di nuovi collaboratori di giustizia convinsero il pubblico ministero, Francesco Del Bene, a riaprire il caso. Nino Pipitone era ormai morto, e Gero Cordaro ammise di fronte al pm di essere stato obbligato dal suocero a mentire, spacciando l’uccisione della moglie per una rapina.

Durante il processo, prima della mia deposizione, con tono risentito e autoritario mi disse che aveva seri problemi di salute e pertanto avrei dovuto dichiarare il meno possibile altrimenti lui dal carcere non sarebbe più uscito.

Fu la dichiarazione del marito di Lia Pipitone.

Al processo dissi che ricordavo poco o niente, e in effetti io potevo riferire solo sospetti e supposizioni. Inoltre volevo salvaguardare Alessio. Avevo deciso di alzare una barriera di protezione e vivere la morte di Lia come un fatto privato, e all’epoca mi comportai di conseguenza.

Dopo aver rivisto la propria posizione, Cordaro spiegò che Pipitone, durante una lite con la figlia, le disse “Meglio una figlia morta che separata“, aggiungendo che la ragazza, come presagendo la sua sorte, gli avesse chiesto di occuparsi di Alessio. Pentiti come Nino Giuffrè, Giovanni Brusca e Francesco Marino Mannoia hanno portato alla storica sentenza raggiunta dopo 35 anni, che ha condannato  a 30 anni Vincenzo Galatolo e Antonio Madonia, già al 41 bis con vari ergastoli per altre condanne.

Significa ribaltare la mentalità mafiosa in una città che ancora ne è vittima – ha affermato l’avvocato Nino Caleca commentando la sentenza – Le rivendicazioni di libertà che Lia Pipitone ha pagato con la vita devono valere per tutte le donne. È stata una battaglia di emancipazione da regole che per essere imposte hanno portato un padre a lasciar uccidere la propria figlia, violando perfino le leggi della natura.

Da poco Alessio Cordaro, oggi quarantaquattrenne, si è aperto con Repubblica al ricordo di sua madre, uccisa quando aveva solo 4 anni.

Da bambino mi raccontavano che mia madre era caduta dalla bicicletta. Mi dissero che aveva perso tanto sangue e non ce l’aveva fatta.

Una versione cambiata in un secondo momento, quando gli venne raccontato della rapina finita male.

Davvero mia madre era una donna che amava la libertà – ha detto ancora il ragazzo – Innanzitutto, non voleva essere più la figlia di un mafioso, di un padre-padrone che avrebbe voluto rinchiuderla in casa. Lei riuscì prima a fuggire da Palermo con il fidanzato conosciuto fra i banchi del liceo artistico: padrini autorevoli si mobilitarono per ritrovare i due ragazzi, e quel giovane, Gero Cordaro, poi diventato mio padre, fu anche portato davanti a un tribunale di mafia. Ma lei non si arrese, sposò il suo fidanzato e continuò a contestare il padre e a vivere la sua vita in libertà. Anche quando una voce insistente nel quartiere iniziò a dire che stava dando scandalo per la sua amicizia con un uomo.

Oggi Cordaro sta portando avanti un’altra battaglia davanti ai giudici, aiutato dagli avvocati Paolo Giangravè, Marcello Assante e Giuliana Vitello, per ottene re il risarcimento che gli spetta (nel febbraio del 2022 il Governo ha stanziato circa 9 milioni di euro per le vittime di criminalità organizzata). Ed è sicuro di una cosa:

Oggi, se fosse viva, mia madre sarebbe in prima linea per la difesa della donne.

Eppure, ancora oggi, in via Papa Sergio, sul luogo del delitto, non c’è nulla che la ricordi, nulla che racconti l’orrore che si è consumato 40 anni fa, la vita di una donna che si è ribellata al potere non solo degli uomini, ma soprattutto della mafia.

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