Lombok, agosto 2022. Sto cercando uno shampoo solido. I supermercati e i negozietti dei villaggi non sempre ne hanno, ma in ogni caso quello che ho infilato in valigia sta per terminare e mi serve un ricambio. Entriamo nel supermercato più grande di Kuta, affacciato sulla strada che ad ogni apertura di porte viene inondata dal freddo dell’aria condizionata. I

l reparto cosmesi è in fondo a sinistra. Giunti lì davanti iniziamo a scorrere con lo sguardo ogni scaffale, sperando di trovare qualcosa che non sia imballato nella plastica. Diversi volti ci restituiscono lo sguardo, dalle confezioni delle tinte per capelli a quelle degli assorbenti visi sorridenti stazionano in attesa di essere afferrati e posati nei carrelli. Allo stesso modo il faccione di un bambino a carponi sorride dalla confezione di salviettine umidificate, gli occhi chiari larghi e una peluria bionda a ricoprirgli o ricoprirle la testa tonda.

Ci fermiamo, sia Save che io ci siamo resi conto che quei capelli vagamente biondi e gli occhi chiari non coincidono con il mondo che si muove appena fuori dalle pareti in vetro. Così riprendiamo ad osservare la vela. Corpi e visi occidentali, carnagioni chiare, accompagnano prodotti per capelli lisci e scuri. Se i prodotti sono made in Indonesia, o in Thailandia, o in Malesia, allora le modelle selezionate hanno connotati coerenti con il Paese in cui siamo, ma il colore della pelle, quello rimane sempre, indiscutibilmente bianco.

Anche a Phnom Penh, sui cartelloni pubblicitari che troneggiano nella via principale, uomini e donne dalla pelle bianchissima appaiono mostrando oggetti costosi, orologi o cellulari. A Kuala Lumpur, nel reparto cosmetica, le creme sbiancanti superano in numero quelle conteggiate in Indonesia e rivaleggiano con quelle trovate – con non poca sorpresa da parte nostra- su Koh Rong Samloem, un’isoletta cambogiana con minimarket in cui quasi non si trova la crema solare. Quella sbiancante, invece sì.

In Italia

In Italia, la velatura cosmetica difficilmente offre rappresentazioni non bianche, non magre e non morbosamente ritoccate in Photoshop perché la pelle presenti un’uniformità così irreale da risultare dolorosa. Sono cresciuta passando accanto a questi muri di insicurezza e correzioni offerte a poco prezzo, covando una rabbia furiosa perché negli anni della mia adolescenza e infanzia i capelli ricci, come i miei, non trovavano spazio essendo considerati disordinati e, senza troppi giri di parole, brutti. Eppure in qualche modo, ero rappresentata.

Nel colore della pelle, in quello degli occhi, nel tipo di capello che gli shampoo si offrivano di trattare – o domare, una delle parole preferite degli shampoo liscianti dei primi anni duemila – io ero contemplata. Interi gruppi umani, invece, non apparivano e tuttora non appaiono, le loro necessità non sono contemplate ma anzi, spesso presentate come un problema che il cosmetico di turno si arroga la volontà di saper risolvere.

Esportazione dello standard

Rivedere questo schema nel Sud Est asiatico, dove la maggior parte delle persone non è bianca, dimostra quanto l’ideale suprematista sia alimentato dall’industria cosmetica. Dalle forme di colorismo, quindi i privilegi maggiori accordati a quelle persone razzializzate con toni di pelle più chiari, a quelle di cancellazione, le vele dei negozi e le proposte cosmetiche altro non fanno che rafforzare l’idea che”biondo è bello, biondo e bianco ancora di più”.

Educazione dell’industria

Le bambine, passando accanto agli scaffali gremiti di pelli bianchissime non possono che sentirsi inadeguate, con la pelle troppo scura o con  capelli troppo crespi. Un’educazione che l’industria non lesina ad impartire senza curarsi troppo dell’impatto sociale della medesima, ma avendo ben in mente quello economico. Intrecciare l’oppressione estetica derivante dal mito della bellezza, a sua volta estensione psicologica del sessismo, alla discriminazione razziale permette di mantenere in essere un mercato basato sulla violenza della cancellazione, dell’imposizione di inadeguatezza e dell’espulsione sociale. La violenza dell’industria cosmetica è nota, dalle misure che impone come standard ai corpi, alla forma specifica che debbono avere i seni per essere considerati attraenti, ma troppo spesso, soprattutto in Italia, non ne si considerano le estensioni razziste.

Razzismo e suprematismo in vetrina

La cosmesi, però, non si limita ad essere razzista, in maniera più o meno palese, ma contribuisce attivamente a mantenere l’idea che esista uno standard estetico ideale, migliore. Si tratta perciò di un’imposizione e al contempo, di una strutturazione, del pensiero suprematista. Perché se l’ideale estetico è quello bianco occidentale, se le persone razzializzate possono essere rappresentate solo con i capelli lisci o la pelle schiarita, allora si corrobora l’idea che la bianchezza sia sintomo di bellezza, quindi di superiorità. 

Messa in prospettiva, questa realtà è a angosciante e spaventosa, soprattutto perché è talmente data per scontata che riesce a mantenersi persino nei nuovi ideali della cosmetica. Ad esempio, tornando al famoso shampoo solido, non sempre – come invece dovrebbe essere – i prodotti sono pensati per le persone con tipologie differenti dallo standard capello liscio, sottile e non crespo. L’espulsione estetica è una piaga che condiziona il nostro modo di percepire la demografia umana, ascrivendola a bello e non bello, e inculcando in maniera pervasiva l’idea che nel bello ci sia spazio solo per il bianco, magro, giovane e abile. 

Shampoo solido ed egemonia estetica

La mia ricerca dello shampoo solido ha avuto un esito favorevole, in un negozietto gestito da un signora di Lombok, insieme ad altri prodotti senza plastica realizzati in loco, ho trovato il benedetto shampoo senza plastica, anzi, ne ho trovato uno pensato per capelli ricci. La ricerca di un mondo in cui la bellezza viene decostruita e analizzata come strumento di oppressione di genere e connotata nella sua matrice fortemente razzista, invece, procede, seppur con la triste consapevolezza che nel mondo della cosmesi la rappresentazione e la conversazione rimangono ancorate a sessismo e razzismo proprio perché l’insicurezza e il dolore verso la forma del sé sono due miniere essenziali per estrarre risorse economiche dalle stesse persone discriminate e oppresse.   

Tant’è che che i canoni giungono persino in quei paesi in cui la norma è un’altra bellezza, con altri connotati e altre forme, demonizzate e costrette a comprare creme, spesso tossiche, capaci di scolorire la pelle. L’esportazione dell’egemonia estetica promuove il suprematismo. Una violenza costante che fingiamo sempre tutti di non vedere e a cui contribuiamo con la nostra indifferenza e le nostre scelte di consumo, quelle che infiliamo in beauty case straripanti di prodotti che spesso fanno prima a scadere che ad essere usati.

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