Ci sono argomenti che nella nostra società sono considerati veri e propri tabù, di cui non si parla per vergogna, imbarazzo o paura del giudizio altrui, anche se sarebbe importantissimo farlo.

Uno di questi è il suicidio, su cui la stigmatizzazione è ancora forte e pesante; non è facile parlare delle persone che si tolgono la vita per una serie di motivi diversi, eppure sarebbe fondamentale farlo, perché significherebbe aprire il discorso a orizzonti più ampi, in cui entrerebbe in gioco, fra gli altri, anche il tema, spesso trascurato, della salute mentale.

Qualche giorno fa abbiamo letto un post del giornalista e scrittore Lorenzo Tosa, dedicato al padre, morto suicida a soli 33 anni; Tosa non solo ha affrontato il tabù, ma lo ha fatto con una delicatezza e una trasparenza estremi, senza trincerarsi dietro facili edulcorazioni né con l’intento di suscitare compassione, ma piuttosto con quello, preciso, di parlare chiaramente e senza mezzi termini del suicidio di una persona cara.

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Un post condiviso da Lorenzo Tosa (@lorenzotosa)

Dopo quel post Lorenzo Tosa ha raccolto decine di commenti, messaggi privati, risposte, che hanno raccontato quanto fosse grande il desiderio, fino a quel momento celato, delle persone di parlare di quel grande rimosso collettivo. Per questo abbiamo deciso di intervistarlo, proprio per parlare con lui delle difficoltà di raccontare il suicidio ma anche della grande importanza che affrontare il discorso avrebbe.

Nel tuo post definisci il suicidio come “un grande rimosso della società” e in effetti sembra essere un argomento tabù. Perché è ancora così difficile parlare di salute mentale e di tutto ciò che può portare una persona a desiderare di non vivere più?

Premetto che non ho risposte precise, sono semplicemente cose su cui mi interrogo quasi ogni giorno, ma credo di poter dire che, alla base di tutto, stringendo all’osso, si possano identificare tre macroragioni: la prima di natura scientifica, o meglio sarebbe dire il suo esatto contrario, l’assenza di conoscenza scientifica sul tema del suicidio, ma anche della sanità mentale in generale. Sono due temi che vanno necessariamente insieme, non possono sfuggire l’uno dall’altro.

Per molto tempo noi siamo andati avanti in una sorta di ‘buio’ sull’argomento, più o meno consapevole. All’epoca in cui mio padre si è tolto la vita, 35 anni fa, un tempo lungo ma tutto sommato breve, c’era ancora la convinzione sociale, ma anche politica, che la malattia mentale non esistesse, non in senso chimico o biologico almeno. Si riteneva fosse un riflesso intimo e psicologico delle condizioni ambientali in cui una persona viveva. Pensiamo solo al tema della liberazione dei manicomi, della legge Basaglia, conquiste di civiltà che hanno però avuto il risultato di aver portato a sottovalutare un tema che in realtà esisteva e andava affrontato.

All’epoca si riteneva che i malati di mente non esistessero, ma esistessero solo condizioni di malessere causate dalla società a cui era necessario dare una risposta, e secondo la generazione di mio padre e quelle persone che hanno condiviso la storia di mio padre, lui era di quelle persone che, nei momenti di lucidità, riteneva che la malattia mentale fosse un costrutto sociale. Si è finito con il sottovalutare questo grande tema e mio padre stesso ha rifiutato psicoterapia e cura farmacologiche che forse – e dico forse – avrebbero potuto salvarlo.

La seconda ragione è di natura psicologica, e riguarda le persone che tendono a colpevolizzarsi per qualcosa di cui si sentono responsabili; sono le persone che restano, che si incolpano per non avere capito in tempo, o di non essere stati un motivo sufficiente per convincere la persona a non compiere il gesto. Per fuggire a questo senso di colpa la soluzione naturale è non parlarne, o parlarne sottovoce, e questo è un aspetto che ho notato in maniera molto significativa, per questo il post è stato così importante.

La terza ragione, infine, ha a che fare con la religione“.

Esatto, è una delle cose che volevo chiederti: quanto, secondo te, la religione e la concezione che essa dà ai credenti del suicidio può influire sulla reticenza a parlarne?

La religione influisce molto su vari aspetti, noi viviamo in un Paese che ha il Vaticano, quindi è difficile che certi temi possano essere davvero liberi, basti pensare alla questione del suicidio assistito. Per la Chiesa non esiste il diritto a morire neppure a certe condizioni, figuriamoci se può esserci una posizione di apertura verso il suicidio. Siamo comunque più fortunati di altri Paesi del mondo dove il suicidio è considerato un reato, quindi se lo tenti ne devi rispondere davanti alla legge. Ciò significa che, invece di comprendere il fenomeno, lo si criminalizza.

Per fortuna in Italia qualche passo avanti c’è stato, ma comunque parliamo ancora di un tabù, di qualcosa di cui parlare sottovoce, con vergogna. Se penso a mio padre, la sua famiglia ha avuto grossi problemi a ottenere il funerale in chiesa, benché fossero molto religiosi e credenti. Alla fine ci sono riusciti, ma al prezzo di varie trattative“.

Molti definirebbero il tuo post “coraggioso” proprio perché hai affrontato un argomento sicuramente complesso ma soprattutto “difficile”, io invece lo definirei semplicemente “onesto”. Abbiamo più bisogno di coraggio o di onestà per parlare di suicidio?

In realtà credo ci vogliano entrambe le cose. I figli o le persone che hanno un suicidio in famiglia spesso trovano i muri più forti proprio lì, tra le mura domestiche. È come se si volesse seppellire quell’esperienza traumatica violenta, perché di certe cose ‘non si deve parlare’. Per anni io mi sono sentito in colpa se facevo domande su chi fosse mio padre, da parte di mia madre e dei miei nonni c’era la volontà di chiudere quel capitolo, di non sapere, ma questo su di me ha provocato delle disfunzioni. La ricerca del padre è fondamentale per un ragazzo, soprattutto perché quando inizi a entrare nell’età adulta credo che un figlio abbia il diritto di sapere la verità nuda e cruda. Soprattutto quando sono diventato padre, ho capito che non potevo guardare al futuro senza prima sapere. Ci ho messo 38 anni, e ho avuto bisogno di una buona dose di coraggio per affrontare quelle cose che prima non ero mai riuscito ad afforontare.

Ho avuto bisogno di decostruire e ricostruire l’immagine paterna che io non ricordo assolutamente: decostruire il ‘santino’ che la famiglia aveva creato su di lui, per recuperare anche le ombre che fino a quel momento erano state sistematicamente eliminate. Ho capito che avevo bisogno anche delle ombre di mio padre, perché lui non è solo un esempio, ma anche la proiezione di quello che sono. Capire cosa è stato mio padre, nella sua complessità, è stato fondamentale, io rivendico il diritto a conoscere la sua storia per intero“.

Fra i tanti messaggi che dopo il post ti sono arrivati, ce n’è stato qualcuno in particolare che ti è rimasto particolarmente impresso, per forza, significatività o sofferenza?

“Me ne sono arrivati moltissimi, pubblici ma soprattutto privati: persone che si sono aperte raccontando pezzi della loro vita che non avevano mai rivelato neppure a figli e mariti, o mogli, quel post ha scatenato reazioni che sono andate contro ogni mia aspettativa, e che mi ha fatto capire che c’è un nervo scoperto della società.

Uno su tutti, però, mi ha colpito: il messaggio di una donna, madre di due figli, che ha perso il lavoro e aveva pensato seriamente al suicidio. Mi ha confessato che il mio post le ha salvato la vita, perché si è resa conto, guardando i suoi bambini, di quale ferita avrebbe inferto loro, quale violenza avrebbe usato nei loro confronti, proiettandoli sul mio dolore, su mio padre, e ha capito che quella non era la strada giusta. Ecco, se questo post è riuscito a fare questo, capisci quanto vale la pena parlarne.

E poi voglio aggiungere una cosa su mio padre: nei suoi momenti di lucidità, visto che negli ultimi mesi era ormai in uno stato psicotico, lui diceva a mia madre ‘Io non ce la farò mai a guarire, ma voi si’… Era come se dicesse che voleva salvarci, rinunciando lui alla vita. Il suicidio ha molteplici letture, non è solo qualcosa di violento, che va contro la vita, a volte è per salvare altre vite, sicuramente non lo si deve leggere come un atto egoistico. Al massimo mio padre ha fatto qualcosa contro se stesso, non contro di me: io non gli rinfaccerò mai di avermi abbandonato“.

Come si supera, a livello sociale, il tabù del suicidio? Con l’educazione, l’informazione, la consapevolezza… Esistono istituti, come Telefono Amico, che svolgono proprio il compito di prevenzione al suicidio, ma c’è altro che noi tutti possiamo fare per togliere questo veto?

Non dobbiamo abbassare la voce, non dobbiamo parlarne sottovoce. Il giorno in cui ho scritto il post ho incontrato un amico che mi ha detto che sua moglie aveva avuto una persona suicida in famiglia, ma mentre lo diceva abbassava la voce, per non farsi sentire, e in quel momento ho capito che quello era proprio il senso del mio post: non abbassiamo la voce, non c’è nessuno stigma.

Il suicidio è un trauma, ma fa anche parte della vita, credo sia una sorta di effetto collaterale della nostra intelligenza e razionalità, e perciò qualcosa che non risolveremo mai. Fa parte dell’uomo.

Però ci sono cose che possiamo fare, come non nasconderci, non seppellire il suicidio sotto l’omertà o nella sottovalutazione dei sintomi. Se mi chiedi ‘Possiamo prevenirlo?’ ti rispondo di no, però possiamo anticiparlo: alcune ricette di mio padre, dell’86, prescrivevano medicinali molto blandi, adatti a chi fosse un po’ giù di morale, non in una condizione seria come la sua. Negli anni abbiamo fatto passi da gigante, lui viveva in un periodo in cui c’era buio totale sulla psiche umana, mentre noi possiamo parlare, anche con chi ha avuto episodi di suicidio.

Il suicidio non è mai una colpa, né di chi si toglie la vita, né di chi resta, è un fatto umano e, come tutti, va affrontato, non giudicato, e casomai elaborato”.

 

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