"Le donne sanno far ridere eccome!" - INTERVISTA A CHIARA BECCHIMANZI

Nei luoghi lontani dai riflettori in cui la stand up comedy nasce ci sono e ci sono sempre state le donne: di queste donne, poche giungono alle luci della ribalta, anzi pochissime, direi 'una su mille' – e questo accade non solo per differenza di capacità, ma anche per una sorta di 'sessismo di sistema', che continuamente si prende la briga di dire a una donna com’è che dev’essere per fare questo mestiere – meno carina, più carina, più signorile, meno signorile, più magra, più simpatica, più umile, più assertiva, più fiduciosa negli autori uomini.

La comicità è (anche) donna. Chi avesse ancora dei dubbi può chiedere a Chiara Becchimanzi, stand up comedian tra le migliori della sua generazione (l’abbiamo vista anche a Zelig Lab), premiata dall’Ordine degli Psicologi per lo spettacolo Principesse e sfumature e attualmente in tour nelle principali città italiane con Terapia di Gruppo, semiserio spaccato degli italiani dopo due anni di pandemia.

Inutile dire che sul ruolo delle donne nella scena comica mainstream, italiana e non solo, ci sarebbe un bel po’ da dire, eppure, grazie a figure come la sua e a un paio di generazioni di attrici comiche brillanti, finalmente i cliché sembrano essere stati, se non proprio abbattuti, quantomeno un po’ decostruiti. Ma, quando la raggiungiamo per questa intervista, è inevitabile partire proprio da qui: sessismo e retaggi maschilisti vs comicità al femminile. Senza mai dimenticare l’ironia, ovviamente.

 Il mondo della comicità in Italia sta riscoprendo un nuovo volto al femminile, anche nella stand up comedy: mi vengono in mente Katia Follesa, Michela Giraud, Annamaria Barbera, Barbara Foria… Donne che affrontano gli stessi argomenti degli uomini, parlano di sesso, di desideri sessuali, dicono parolacce… Insomma, ci stiamo finalmente avvicinando alla decostruzione di quegli stereotipi che volevano la stand up comedy come “roba da uomini” e, soprattutto, il ruolo delle donne limitato a comprimare silenziose o quasi, o comunque destinate a mantenere sempre una certa “signorilità” nel loro modo di esprimersi?

È un argomento estremamente complesso e stratificato! Provo a dirti la mia: io penso che non esista una comicità ‘al femminile’, e che anzi, continuare a descrivere così la comicità agita da donne contribuisca a perpetuare lo stereotipo che la comicità ‘senza specifiche’, quindi ‘neutra’, ‘di base’, sia maschile – e non credo che ci aiuti a uscire dal loop. La comicità performata da donne esiste da sempre, o quantomeno da Isabella Andreini in epoca moderna, il problema è che è stata quasi sempre codificata, inscatolata e categorizzata da posizioni apicali maschili.

Le tre generazioni di comiche che mi hai citato stanno contribuendo sicuramente ad aumentare la rappresentatività femminile, che è uno degli elementi fondamentali per decostruire gli stereotipi, almeno a livello ‘mainstream’ – che è un luogo non-luogo molto affascinante, in cui gli stereotipi vengono continuamente decostruiti per ricostruirne di nuovi (il mainstream vive di stereotipi e di semplificazioni, altrimenti non sarebbe mainstream).

Nei luoghi lontani dai riflettori in cui la stand up comedy nasce (intendo dire ‘i peggiori bar delle varie downtown’) ci sono e ci sono sempre state le donne, che parlavano di tutti i fatti della propria vita, così come la stand up comedy prevede (desideri sessuali compresi): di queste donne, poche giungono alle luci della ribalta, anzi pochissime, direi ‘una su mille’ – e questo accade non solo per differenza di capacità, ma anche per una sorta di ‘sessismo di sistema’, che continuamente si prende la briga di dire a una donna com’è che dev’essere per fare questo mestiere – meno carina, più carina, più signorile, meno signorile, più magra, più simpatica, più umile, più assertiva, più fiduciosa negli autori uomini – e non sempre questi preziosissimi consigli hanno a che fare con il valore del lavoro, del pezzo o delle battute, ma più spesso con l’aspetto e l’atteggiamento, che a una donna non si perdonano.

Veniamo continuamente messe a confronto le une con le altre, perché gli spazi scarseggiano, ed ecco emergere la sindrome di Atena (citazione da Eroine di Marina Pierri), ovvero di colei che crede di aver sconfitto il patriarcato perché ha raggiunto vette incredibili, ma in realtà lo perpetua perché le ha raggiunte secondo le regole del patriarcato stesso, e siede, sola donna, a un tavolo di soli uomini, senza creare squadra con altre donne, perché ‘una sola ce la può fare’. La stand up comedy prevede che il comedian e la comédienne raccontino se stessi/e utilizzando la ‘maschera’ che più si addice loro, abbandonando il personaggio per trovare, se vuoi, una ‘nudità artistica’ che consenta di mostrare al pubblico il proprio io così com’è; questo comporta il poter attraversare tutti gli argomenti possibili, in tutti i modi possibili, purché siano coerenti con l’energia del/della performer sul palco e non gratuiti: la stand up comedy richiede di essere se stessi/e, ma non sempre si può essere se stesse, soprattutto le donne, soprattutto sui palchi mainstream, con poche eccezioni (il monologo di Sabrina Ferilli a Sanremo è una di queste, secondo me).

Per questo, sempre secondo la mia verità che non è certo assoluta, la decostruzione degli stereotipi avviene anche e soprattutto altrove, lì nei peggiori bar, frequentati dalle nuove generazioni, con la resistenza performativa delle donne sul palco e del pubblico in sala. Ho trovato molto riassuntiva a riguardo la battuta del personaggio di Che in Just like that, reboot di Sex & the city. Che è una stand up comédienne non binaria, e chiude il suo special su Netflix dicendo: ‘Avete rotto il ca**o con i pregiudizi. Spoiler: io non ho il ca**o, altrimenti mi avrebbero dato questo special 5 anni fa’“.

A proposito di tabù, tu sei una donna che parla anche di sessualità e intimità. Ti senti mai giudicata per questo?

Dal pubblico in sala, mai. Dal pubblico social, a volte. Da addetti/e ai lavori, spesso. Ogni giudizio o pre-giudizio non fa che confermarmi che sono sulla strada giusta: la sessualità fa parte della vita, un’intimità piacevole è necessaria al benessere psicofisico, e l’urgenza con cui io salgo sul palco è andare aldilà della risata (che per me è solo un mezzo) per toccare altre corde. I giudizi negativi che sento o leggo più spesso sono: ‘Un’altra donna che parla di sesso! Ma non sanno parlare d’altro?’; giudizi che si fondano su bias di percezione. Intendo dire: se un uomo durante un suo monologo di 20 minuti dedica 5 minuti al sesso o al suo pene sta parlando di un fatto della vita; se una donna in un monologo di 20 minuti dedica 5 minuti al sesso o alla sua vulva ‘Eh ma le donne parlano solo di sesso!’.

Un’altra percezione alterata dei miei pezzi a riguardo è il non capire che non sto parlando semplicemente di sesso, ma di come veicolare i contenuti sessuali alle nuove generazioni, che è molto diverso. Inoltre, mi azzarderei a suggerire un altro punto di vista: il comedian e la comediénne parlano, sul palco, di ciò che ritengono più importante, significativo o urgente nelle loro vite. Questa selezione non è giudicabile, perché dipende dall’unicità del/della performer.

Se per le donne parlare di sesso è così importante, facciamoci due domande: quanto sesso insoddisfacente saranno state costrette a fare nella loro vita e quanto sarebbe importante invece farlo con soddisfazione? Quanti insulti sessisti derivano dai tabù sessuali che è necessario scardinare? Quanto la sottovalutazione del piacere femminile influisce sulla mortificazione dell’autonomia nelle relazioni, che poi diventano tossiche?

Ti sei mai sentita sminuita dai tuoi colleghi per il fatto di essere una comica, proprio per quei cliché sessisti di cui ti parlavo prima? O qualcuno ha mai provato a farti mansplaining?

Considera che la stragrande maggioranza dei laboratori di stand up comedy è condotta da uomini; e ci sono sempre più uomini che donne nei gruppi di lavoro, nelle scalette delle serate, nei programmi televisivi. Dunque il mansplaining è all’ordine del giorno, anche se non necessariamente in malafede. Attenzione poi, il mansplaining lo fanno anche le donne, ogni volta che ti danno consigli non richiesti che provengono dal fatto che sono immerse in una cultura maschilista. Spesso mi hanno consigliato di ‘imbruttirmi’, nel senso di vestirmi in maniera più casual/trasandata, oppure cose tipo ‘Siccome sei carina da vedere, cerca di creare empatia sminuendoti nel pezzo’.

Uno dei modi più comuni in cui sono stata sminuita senza intenzione, è l’essere introdotta sul palco con la frase ‘la bellissima Chiara Becchimanzi’, ovviamente pronunciata da un MC uomo, dopo aver congedato uno ‘strepitoso Tizio Caio’; come a dire ‘un uomo deve essere bravo, una donna basta che sia bella’, stereotipo (o residuo vestigiale) che proviene da un’epoca in cui non avendo alcuna possibilità di carriera o di disponibilità economica le donne affidavano alla bellezza l’unica speranza di vivere una vita decente, accanto a un uomo ricco.

Ecco come un complimento può sminuire una comica, perché scavalla i piani e sconfina nel giudizio sull’aspetto (che non c’entra niente con la mia professionalità) ancor prima che io salga sul palco. In genere accadono tre cose, quando vengo presentata così: o il pubblico trova che l’MC non abbia ragione, quindi è perplesso; o il pubblico trova che l’MC abbia decisamente ragione, quindi la parte interessata all’articolo pensa a concupirmi e la parte disinteressata (ma frustrata) rosica; ci sarà anche chi penserà ‘che presuntuosa, a concordare una presentazione del genere’. In ogni caso, le mie prime 4 frasi non le ascolta nessuno, perché stanno pensando solo al mio aspetto (che, per inciso, io non penso affatto sia bellissimo).

Ovviamente questo non accade per l’intero pubblico, ma ti assicuro che per la maggior parte sì: un altro degli stereotipi che vorrei tanto scardinare è questa attenzione eccessiva, compulsiva e ossessiva che abbiamo per i corpi altrui. Detto questo, ci sono colleghi e colleghe a cui sarò per sempre grata perché mi hanno insegnato tanto, e te ne cito quattro: Daniele Fabbri, Pietro Sparacino, Daniele Parisi e Velia Lalli, che sono anche persone a cui voglio molto, molto bene”.

 Senza ovviamente spoilerare troppo del tuo nuovo tour (partito il 17 febbraio e che terminerà il 5 aprile, girando tutta Italia), cosa credi di
aver imparato della psiche umana in questi due anni di pandemia che hanno messo tutt* a dura prova?

Assolutamente niente, chi ci capisce è brava! In questo niente, emergono esigenze molto forti: condividere le cose, sentirsi meno soli e sole. La mia ‘terapia di gruppo’ è liberatoria perché non ha pretese, ma mette tutti e tutte a proprio agio. E ti dico anche una cosa strana: mentre il pubblico condivide la terapia con me e con la sala, non ha quasi mai l’esigenza di condividere qualcosa sui social – nessuno prende in mano il telefono, quasi mai. All’inizio la parte di me egocentrica, quella che vuole migliaia di followers e stories dedicate, ci rimaneva male.

Per fortuna prevale sempre l’altra parte, quella che pensa al mondo reale, e che mi fa concludere che il fatto che nessuno tra il pubblico prenda il telefono durante uno spettacolo perché è coinvolto minuto per minuto, sia una conquista, non una diminutio.
Una ragazza, dopo il mio spettacolo a Bari, ci ha tenuto a scrivermi: ‘Grazie mille Chiara per la forza del tuo spettacolo. Ci hai regalato una serata bellissima facendoci ridere e riflettere… E sentire un po’’meno soli nelle nostre insicurezze e unicità’. Ecco, un messaggio del genere dà un po’ senso a tutto quanto. (Preciso che non era mia sorella; mia sorella non mi vuole così bene da seguirmi fino a Bari)”.

Domanda da un milione di dollari: è più difficile, per una donna in Italia, essere presa sul serio mentre cerca di far ridere o mentre cerca di scalare il mondo del lavoro, farsi una carriera o dire di non essere attratta dalla maternità?

“Sono contentissima di rispondere a questa domanda il giorno in cui è diventato virale il video che mostra il Presidente dell’Uganda saltare Ursula Von der Layen e precipitarsi a salutare i due uomini Macron e Michel. Se non viene presa sul serio chi presiede la Commissione Europea non vedo che speranza abbiamo noi povere guitte, comiche, senza figli! A parte gli scherzi, vado contro corrente: secondo me la difficoltà che incontriamo in tutti gli aspetti che elencavi è proprio che veniamo prese molto sul serio – la cosiddetta invidia dell’utero, che ha portato il mondo a costruire un sistema che riduce la possibilità di dare la vita a unica occasione, per le donne, di dare un senso alla propria, di vita: che corto circuito!

Io non sono attratta dalla maternità e sono molto serena riguardo a questo, ma ovviamente mi sono sentita dire mille volte ‘non è possibile, sei tu che la rifiuti, fa parte della tua natura’; ‘tutte le donne in fondo sono fatte per avere figli’, ‘non sai che ti perdi’ (questa spesso pronunciata con un tic all’occhio dovuto alla mancanza di ore di sonno).

La maternità viene presa troppo sul serio da un lato, e sminuita dall’altro: è lo stesso corto circuito che avviene ogni volta che un
Fedez viene definito ‘baby sitter’ o ‘mammo‘ mentre una Chiara Ferragni è altrove per lavoro. Altro adagio meraviglioso, dimostrazione che esiste un corto circuito tra percezione delle donne e serietà: ‘le donne non fanno ridere’, quante volte l’ho sentita, da colleghi, addetti ai lavori, pubblico social e capi dei capi!

‘Le donne non fanno ridere’ è un concetto stabilito e diffuso da chi è immerso/a nella misoginia: è l’ennesimo bias di percezione di chi scambia la visione maschiocentrica per quella generale, e senza rendersene conto. Un uomo molto influente una volta mi disse: vuoi parlare con me di maschilismo? Il maschilismo non esiste; le donne, purtroppo, non fanno ridere e basta, poverine.
Poverine noi? Povero lui. Solo che ancora non lo sa”.

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