L'obbligo alla gonna è sessista: le divise delle donne, sommelier e non solo

Dopo la denuncia social della fotografa Nicole Hesslink, abbiamo chiesto alle principali scuole che formano sommelier cosa prevede il loro regolamento in termini di divisa per le donne. Del resto il sessismo nell'abbigliamento da lavoro ha radici profonde che, in Italia, affondano anche nell'iconografia stereotipata di alcune professioni femminili, cui ha contribuito il cinema italiano dal secondo Dopoguerra in poi e, soprattutto, la commedia sexy degli Anni '70-80.

La questione è stata sollevata nei giorni scorsi dalla fotografa americana Nicole Hesslink sui social.
Residente da anni nelle Marche, per interesse personale e ragioni professionali, Hesslink ha intrapreso un percorso formativo per diventare sommelier presso una nota fondazione nazionale che, ha scoperto solo in seguito, impone tassativamente alle donne che lavorano sotto il suo cappello di indossare la gonna.

Che le associazione di sommelier, come altri ordini e organizzazioni, prevedano una divisa è cosa nota.
Ma perché una donna deve essere obbligata a indossare una gonna e non può mettere dei pantaloni, altrettanto adeguati all’uniforme?
Se lo è chiesto Hesslink, che ha posto la domanda alla sezione di Fermo presso la quale stava svolgendo il corso e, quindi, alla sede centrale di Roma cui è stata rimandata. Con quest’ultima è nato uno scambio di mail che l’aspirante sommelier ha poi documentato sui social, in questo post:

Come si apprende dalle mail, ribadito l’obbligo, la fondazione in questione ha negato le ragioni sessiste dello stesso, adducendo semmai motivazioni di tipo estetico; e fino a suggerire alla corsista di esercitare la sua ‘libertà’ di non accettare l’imposizione abbandonando la fondazione stessa.

Per essere precisi, il concetto è stato così espresso nella mail: “Sostenere che la scelta della gonna sia sessista è proprio una sua opinione. Se non vuole indossare una gonna, la soluzione è semplice, per rimediare a questo problema può decidere di lasciare il gruppo di servizio della fondazione”.

Posta la soggettività e l’evidente problematicità delle ‘ragioni estetiche’ addotte dalla fondazione, prevedere un’uniforme che imponga alle donne di indossare una gonna è senza dubbio sessista, anche volendoci limitare alla visione dualistica dei generi, cui certamente si riferisce il Sabatini Coletti, uno dei dizionari più autorevoli della lingua italiana, quando definisce

[ses-sì-sta] agg., s. (pl.m. -sti) Che ribadisce la discriminazione dei sessi.

Che poi il sessismo possa essere introiettato e inconsapevole, ovvero non percepito come tale da chi lo agisce o ne è vittima, quello è una possibilità oltremodo diffusa, che trova nel maschilismo culturale il suo humus. È evidente che in questo caso siamo di fronte a un tipo di discriminazione che affonda le radici in un pensiero centenario e, comunque, vecchio di molti decenni, che non è neppure sfiorato dall’idea delle istanze paritarie attuali e, quindi, di inclusione delle identità non binarie.

Posto l’epilogo del caso Hesslink, che per tutelare il suo diritto a non subire una discriminazione ha dovuto abbandonare la fondazione ed è stata accolta da un’altra associazione, abbiamo posto la questione uniformi anche alle altre principali scuole che formano sommelier in Italia.

Divisa da sommelier: la risposta delle altre scuole

Nel documentare pubblicamente la vicenda, Hesslink ha scelto di oscurare il nome del o della referente, e la sigla della fondazione stessa; decisione peraltro ribadita, a fronte di specifica domanda, anche alla sottoscritta perché, come ha scritto sui social:

Molti di voi mi hanno scritto chiedendomi di dichiarare pubblicamente chi fosse questa organizzazione. Credetemi, volevo farlo. Ma se l’avessi fatto, sarebbe stato per rabbia e per vendetta […] In secondo luogo, se avessi reso pubblico il nome, sì, forse avrebbero subito accettato anche i pantaloni. Ma non vedo questo come una sorta di vittoria. Come potete vedere dalle loro risposte, il problema risiede nel profondo dell’organizzazione. La questione della divisa è solo un problema minore. E non credo che il cambiamento possa avvenire dall’oggi al domani.

Come scrive nel proseguo la stessa Nicole Hesslink, del resto, si tratta in realtà di un segreto di pulcinella, abbastanza evidente quanto meno agli addetti ai lavori e chi fa parte del settore.

A fronte di questo, nei giorni scorsi ho contattato personalmente alcune tra le più note associazioni che formano sommelier e, facendo riferimento al caso specifico, ho chiesto quanto segue:

La vostra associazione, nello specifico, prevede una divisa diversa per uomini e donne?
Se sì, la donna è tenuta a indossare la gonna o, a fronte di una giacca o altri accessori identificativi, validi sia per le donne sia per gli uomini, può indossare anche i pantaloni?

La divisa è specificata nel vostro regolamento?
Sono previsti (o sono già stati attuati) cambiamenti a eventuali regolamenti o abitudini che, come nel caso di imporre la gonna a una donna, sono evidentemente sessisti?

Di seguito, le parole di coloro che hanno risposto (qualora dovessero giungere eventuali ulteriori risposte da parte di altre scuole e associazioni interpellate e non, saranno integrate di seguito):

AIS – Associazione Italiana Sommelier

Antonello Maietta, Presidente Nazionale AIS: “Il legame con un prodotto nobile come il vino dovrebbe essere ispirato da principi di condivisione e inclusione, ma soprattutto lo scopo dei nostri sodalizi è quello di divulgare conoscenza, e la cultura è un bene che deve essere fruibile a tutti, senza distinzione alcuna. Per rispondere alla sua domanda le allego il nostro regolamento in vigore pressoché da sempre, senza alcuna intenzione di modificarlo. Come potrà percepire dall’articolo 9, l’opzione tra pantalone o gonna è lasciata alla libera scelta di ciascuna collega, poiché è fondamentale che ci si senta a proprio agio nell’uniforme che si indossa.”

A.I.E.S. – Accademia Internazionale Enogastronomi Sommeliers

Patrizia Poli, presidente AIES: “Il mondo della sommellerie poteva essere ad appannaggio prettamente maschile forse alcune decine di anni fa, adesso la situazione è nettamente cambiata, lo dimostra il fatto che in merito alla partecipazione ai nostri corsi da sommelier molto spesso le donne sono in leggero vantaggio in termini numerici sugli uomini. Per quanto riguarda l’utilizzo della divisa sociale nella nostra Accademia è normato da un regolamento interno che non ha mai obbligato le donne sommelier all’utilizzo della gonna.
Alcuni capi sono uguali per entrambi i sessi: giacca blu, camicia bianca e scarpe di foggia classica scure; poi gli uomini hanno l’obbligo del pantalone grigio scuro e della cravatta, mentre le donne possono scegliere tra pantalone o gonna grigio scuro e tra foulard o cravatta. Nella nostra Accademia non vige quindi nessun retaggio sessista, ma viene lasciata da regolamento accademico piena libertà alle donne sulla decisione del capo che preferiscono indossare.”

FISAR – Federazione Italiana Sommelier Albergatori e Ristoratori

Patrizia Loiola, Consigliera Nazionale e Responsabile Comunicazione Fisar: “Il regolamento Fisar disciplina le divise per i e le sommelier, prevede lo smoking nero per i servizi, sia per i sommelier che per le sommelier. Le sommelier possono indossare indifferentemente una gonna o il pantalone a loro gusto; lo stesso per la divisa ‘da passeggio’ istituzionale che viene utilizzata in tutte le altre occasioni ufficiali Fisar: un completo grigio scuro (le sommelier anche qui possono usare come preferiscono gonna o pantaloni). Le regole previste valgono sia per gli uomini che per le donne: ad esempio, ad entrambi è richiesto un utilizzo non eccessivo di profumo durante i servizi, le mani e i capelli curati e puliti.

Mi permetto di fare presente che in Fisar Federazione Italiana Sommelier Albergatori e Ristoratori dal 2011 ha preso avvio un progetto istituzionale chiamato ‘Fisar in Rosa’ che stato istituito proprio per valorizzare la presenza delle sommelier nella nostra associazione e annullare, il più possibile, qualsiasi preclusione rispetto la presenza delle donne nella sommellerie e, in generale, nel mondo del vino. Da quando il progetto è stato istituito la presenza delle donne in Fisar (che oggi supera il 40%) non solo è esponenzialmente aumentata, ma è anche più qualificata. Sono sempre più le donne in Fisar che occupano ruoli direttivi, in primis Responsabili di Delegazioni o componenti dei Consigli Direttivi delle diverse Delegazioni; sempre più numerosi le formatrici/docenti Fisar. Infine, negli ultimi due anni, il titolo di “Miglior sommelier dell’anno Fisar” è stato assegnato a una sommelier.”

Eurosommelier – Scuola Europea Sommelier Italia

Virginie Iorio, Segreteria Nazionale Eurosommelier: “Scuola Europea Sommelier, come tutte le associazioni di settore, prevede una divisa istituzionale ed una di servizio. In entrambi in casi non è imposto il codice gonna o pantalone, ma solo il rispetto dei colori istituzionali. Giacca blu, pantalone o gonna grigi.
Quello che fa la differenza è la cravatta per gli uomini e l’ascot per le donne.”

A.S.P.I. – Associazione Sommelier Professionale Italiana*

Marta Perduca, Segreteria ASPI: “Il tema della divisa, in ASPI, è stato preso in considerazione fin dalla sua fondazione, nel 2007, indicando in un Regolamento interno i riferimenti non obbligatori per la Divisa di Rappresentanza e per la Divisa di Servizio, così come da tradizione in tutti i Paesi dove ci sono associazioni di sommelier. A tale proposito, precisiamo che ASPI è membro di ASI (Association de la Sommellerie Internationale), come le 60 associazioni nazionali di altrettanti Paesi nei cinque Continenti. Queste associazioni si attengono e rispettano lo Statuto ed i Regolamenti di ASI anche in materia di divisa. Infatti, ASI consiglia per i concorsi o per l’esame per il Diploma internazionale la stessa divisa di servizio che viene indossata nel proprio lavoro, senza distinzione per uomo o per donna, ricordando soltanto dettagli pratici come le tasche (per il tovagliolino, il cavatappi, i tappi, le capsule ecc). Viene anche consigliato al professionista di non mostrare tatuaggi, gioielli, avere cura della barba ed utilizzare scarpe chiuse.

Tuttavia, precisiamo che non c’è alcun obbligo. Il problema della gonna o dei pantaloni per le donne è stato più volte riscontrato nell’ambito della ristorazione dove persistono mentalità e tradizioni che non prendono in considerazione l’evoluzione dei tempi.
In ASPI riteniamo di essere all’avanguardia e di favorire al massimo lo sviluppo della professione per uomini e donne, senza differenze e senza obblighi ma nel rispetto dei valori democratici e di rispetto”.

L’obbligo alla gonna per divisa è sessista, sempre

Sembra superfluo precisarlo, e sarebbe bello lo fosse davvero, ma nel dubbio: l’obbligo alla gonna per divisa è sessista, sempre. Non solo nel settore enologico ed enoturistico dove, al netto delle recenti conquiste e della presenza crescente di donne del vino, il sessimo è ben radicato per ragioni storiche e culturali precise.

Persino l’aviazione civile, corpi militari e altre istituzioni note per essere baluardi di sessismo, negli ultimi decenni, hanno dovuto (in alcuni casi, non tutti purtroppo) deporre il maschilismo almeno delle uniformi ordinarie e adeguarsi ai tempi; fino ad arrivare a predisporre anche versioni premaman, come nel caso recente della Marina militare. Pure, in molti casi il sessismo delle uniformi permane, soprattutto nelle divise di rappresentanza dove la scelta tra gonna e pantalone spesso decade a favore dell’obbligo, sessista, alla prima.

Resta poi il mondo delle aziende private, con particolare riferimento a posizioni lavorative di front-office e al settore Ho.Re.Ca (Hotellerie, Restaurant, Café), dove lo stereotipo sessista – per esempio della segretaria, della receptionist, della barista, della cameriera, etc. – ha scavato profondamente l’immaginario italiano con la complicità del cinema italiano dal Dopoguerra ad oggi, con particolare riferimento alla commedia sexy degli Anni ’70-80.

Il cliché della donna in divisa ha nutrito un repertorio iconografico violentemente sessista e ha contribuito al suo sedimentarsi nell’inconscio collettivo di intere generazioni con film sulle cui locandine campeggiavano immagini di professioniste in divise succinte, chiaramente uscite dalle limitate fantasie erotiche di maschi borghesi. Basta cercare su Google titoli indicativi del repertorio Lino Banfi, Alvaro Vitali, Edwige Fenech e compagnia:  La professoressa di scienze naturali, La dottoressa ci sta col colonnello, L’insegnante al mare con tutta la classe, La poliziotta della squadra del buon costume, L’infermiera di notte, La poliziotta fa carriera, etc…
Su queste commedie piccanti, e molte altre, la società del tempo esercitava la pruderie perbenista e annichiliva le sue frustrazioni bigotte, giocandosi la carta dell’emancipazione della donna da angelo del focolare a oggetto sessuale: sempre e comunque al servizio dei bisogni o delle voglie del uomo.

Cosa è rimasto di questo cliché lo vediamo oggi in alcuni ambienti lavorativi scarsamente professionalizzanti o molto stereotipati, laddove l’abbigliamento di lavoro può essere ancora disciplinato più o meno ‘impunemente’ da regolamenti interni arbitrari e discriminatori. Almeno finché l’iniziativa privata di alcune donne, che trovano il coraggio di ribellarsi al sistema, porta questi casi alla ribalta della cronaca e denuncia obblighi di outfit sessisti che nulla hanno a che vedere con le tre possibili funzioni previste per gli indumenti di lavoro dalla Circolare n.34 del 29 aprile 1999 del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale:

  1. elemento distintivo di appartenenza aziendale, ad esempio uniforme o divisa;
  2. mera preservazione degli abiti civili dalla ordinaria usura connessa all’espletamento della attività lavorativa;
  3. protezione da rischi per la salute e la sicurezza.

A meno che non si voglia, ancora, pensare ad alcune parti anatomiche delle lavoratrici come a potenziali capitali al servizio delle aziende, da mettere a fatturato o anche solo in bella mostra. Nulla di nuovo, lo si è fatto per decenni: ma è sessista!

 

* La risposta dell’A.S.P.I. è giunta in redazione, ed è stata integrata nel presente articolo del 9 febbraio 2022, in data 14 febbraio 2022. 

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