Femminismo decoloniale: come togliere le lenti colonizzatrici che non sappiamo di indossare

Abbiamo bisogno di guardare il mondo liberandoci dalle lenti colonizzatrici che non ci accorgiamo nemmeno di portare; altrimenti il nostro femminismo si ridurrà sempre a una rincorsa per diventare come gli uomini che ci opprimono e dividono.

Scrollando i social sembra quasi che il mondo sia finalmente e per sempre cambiato: attivist* femministi e femministe, centinaia di persone, anche molto giovani, che conoscono già il significato di concetti complessi come il gender pay gap, il consenso sessuale e i soffitti di cristallo, ogni giorno creano contenuti utili e infografiche dettagliate su cosa possiamo fare, come loro follower, per vivere in una società meno sessista di questa.

Ed è un bene. Non fraintendetemi, è un gran bene.

Al di là però del fatto che ovviamente nulla è davvero sconfitto da questa parte del mondo, vale la pena interrogarsi sull’utilità e la giustizia di un femminismo pensato per donne abili cis etero bianche per altre donne abili cis etero bianche. E soprattutto, borghesi. Purtroppo quello mainstream.

Quello che sembra mancare nelle analisi politiche, online e offline, è proprio non solo la messa in dubbio delle divisione del mondo in classi sociali e del capitalismo, che è alla base dello squilibrio di potere machista, ma anche la capacità di analizzare il mondo e la disparità di genere in un modo che non sia completamente e irrimediabilmente occidentale (parlo ovviamente delle persone bianche che fanno attivismo).

La risposta delle vip nostrane alla presa del potere da parte dei talebani, donne ricche bianche vestite costosissimamente di bianco “in solidarietà alle donne afghane”, rappresenta proprio l’incapacità di decostruire un pensiero colonialista che vede come unico modello accettabile la donna occidentale; l’unica forma di liberazione del genere possibile.

Il resto del mondo è fatto di “povere donne”: povere donne che camminano scalze, povere donne che portano il burqa, povere donne che fanno dieci figli, che vanno a prendere l’acqua per portarla nei villaggi. Scompare totalmente l’autodeterminazione, manca la conoscenza di mondi che sentiamo evidentemente troppo inferiori a noi per saperne di più. Ancora: scarseggia vergognosamente la comprensione di quanto una parte del mondo viva un costante svantaggio delle condizioni di vita proprio a causa nostra e del nostro modo di consumare e soprattutto per le ferite e conseguenze coloniali mai risolte.

Che cos’è il femminismo decoloniale

Cos’è quindi il femminismo decoloniale, l’unico, a mio parere, auspicabile?

Semplicemente, è un femminismo che non pone al centro le istanze della donna cisgender occidentale, ma analizza le cause intersezionali degli squilibri di potere, su scala globale. Studia, nutrendosi di contaminazioni di femminismo nero e studi post-coloniali, le invasioni che i popoli nativi hanno subito e continuano a subire, l’obbligo drammatico alle migrazioni, la discriminazione delle donne razzizate e povere, costrette a lottare contro un duplice machismo: ci sono le lotte intestine, per la parità di genere all’interno delle comunità a cui queste donne appartengono per nascita; e c’è il maschio bianco colonizzatore, contro cui ci si allea insieme agli uomini delle stesse comunità marginalizzate, invase, espropriate di vita, spazi e terre.

È analizzare il concetto stesso di modernità occidentale e realizzare che è non solo capitalista e maschiocentrico ma anche profondamente razzista e coloniale. E sempre lo sarà. Sta a noi creare nuove vie. O meglio, sta a noi supportare la totale autodeterminazione di lotte che non ci appartengono e non ci devono appartenere. Stare affianco.

Femminismo decoloniale: le esponenti

María Lugones

Un’esponente fondamentale del femminismo decoloniale è stata María Lugones, filosofa argentina e attivista femminista, professoressa di letteratura comparata e studi sulle donne alla Binghamton University di New York. Le teorie di Lugones sono basate prevalentemente sulle forme di resistenza a diverse modalità di oppressione e sull’intersezione tra razza, genere e colonialismo dell’America Latina.

Lugones afferma che prima della colonizzazione, il genere fra i popoli nativi aveva connotazioni completamente diverse, compresi modelli matriarcali e mancanza di dicotomia uomo-donna: è la “colonialità di genere” ad aver imposto comportamenti che impongono una gerarchia con al vertice l’uomo bianco, al di sotto l’uomo nativo, e inferiori a tutte le donne indigene. Non solo, la razzizzazione originaria, che Lugones vede come divisione tra “umano” e non “umano”, si riflette anche sulle donne non bianche, considerate, dai colonizzatori, come non umane e sicuramente non “femminili” come le donne bianche. Un pensiero che ha romanticizzato lo stupro continuo delle donne indigene, nient’altro che uno strumento per fiaccare la resistenza della popolazione e”ripulirla” in senso etnico.

La soluzione per la filosofa è un femminismo che sfidi in primis lo status quo dei modelli coloniali e la norma dei rapporti europei ed eurocentrici fra uomo e donna, modelli imposti che le donne e in generale i popoli latini devono combattere attraverso una rieducazione decoloniale che comprenda che la discriminazione di genere nelle Americhe è soprattutto sopraffazione dell’invasore.

Julieta Paredes

Julieta Paredes è un’attivista femminista comunitaria, lesbica e aymara boliviana. Nel 1992, insieme alla sua compagna dell’epoca, María Galindo, e a Mónica Mendoza fonda il collettivo artistico anarchico-femminista Mujeres Creando, con una forte tematica contraria all’imposizione dell’eterosessualità ed eteronormatività. Centrale, nel pensiero di Paredes, è l’avversione agli studi coloniali e postcoloniali: in sintesi, la decolonialità si fa, non si studia, e si realizza attraverso pratiche di decostruzione quotidiana.

Françoise Vergès

Un’altra esponente del femminismo decoloniale è Françoise Vergès, politologa francese, presidentessa dell’associazione Decoloniser les arts e autrice, fra gli altri di un testo fondamentale sui temi che stiamo trattando in quest’articolo, Un femminismo decoloniale.

Un femminismo decoloniale

Un femminismo decoloniale

Nella sua analisi Françoise Vergès parte dall'assunto innegabile che a partire dal XVIII secolo la storia del femminismo occidentale sia stato un fruttuoso susseguirsi di vittorie nel campo della rivendicazione dei diritti individuali delle donne. L'autrice precisa tuttavia che queste vittorie, fondate sullo cancellazione delle disparità uomo-donna, hanno sottovalutato e in certi contesti ignorato le esperienze di dominazione che esistono tra le donne stesse.
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Nel libro, Vergès parla dell’importanza di fare luce sul lavoro invisibile delle donne razzizzate, a partire dal racconto delle lavoratrici che, nel gennaio 2018, dopo quasi due mesi di sciopero, vinsero contro la Onet, una società di pulizie in subappalto di Snfc. Le donne che svolgono ruoli sottopagati e sottoqualificati, scrive Vergès, mettendo a rischio la propria salute fisica e mentale per paghe da miseria, sono molto spesso donne che subiscono anche razzismo e discriminazione. Donne “destinate” a questa vita, nel silenzio degli aeroporti che si svuotano, degli alberghi prima che arrivino i clienti, del mondo che viene pulito da loro ogni giorno, instancabilmente, senza che nemmeno ci accorgiamo della loro presenza.

Esiste, secondo l’autrice, un’oppressione prodotta dallo Stato, fortemente patriarcale e capitalista, ed è creando alleanze oltre i confini la soluzione; contro neoliberismo, capitalismo e oppressione razziale. Una disobbedienza continua insomma che deve mettere in discussione il dominio sia machista che bianco e coloniale.

Il femminismo comunitario

Entra qui in gioco il femminismo comunitario (ad esempio boliviano), che rifiuta il concetto bianco e colonizzatore della “parità di genere”, che non solo non può esistere data la subordinazione millenaria del genere femminile, ma che non prende in considerazione le lotte interne contro l’oppressione patriarcale nativa. Un femminismo che rifiuta il pietismo delle ong che impongono un unico modello femminile, e una narrazione a senso unico della “donna del terzo mondo” (si ricollega qui in parte alla denuncia di Vergès sul modo in cui guardiamo e consideriamo le “povere donne col velo” anche se perfettamente libere e autodeterminate).

Centrale è appunto il concetto di comunità: non la donna bianca occidentale che compie un percorso individuale per diventare come l’uomo che la opprime, ma una società alternativa che superi il genere e introduca un concetto di collaborazione ed equità. Il tutto attraverso un’ottica di lotta per l’ambiente che non è il “giardinaggio” occidentale ma una riappropriazione dei territori colonizzati e distrutti dall’oppressore bianco.

Perché l’occhio globale del femminismo non può ridursi e ridurre le donne a un concetto generico di femmina bianca, con bisogni, desideri, vite, fisicità e credo unici e se non unici guardati e immaginati come moralmente superiori. Un femminismo globale e davvero intersezionale punta alle differenze, e comprende le istanze delle donne che sono state oppresse in mille modi prima del patriarcato, e poi anche con il patriarcato.

Il femminismo decoloniale in Italia

Benedetta Pintus ha scritto un articolo molto interessante sul femminismo decoloniale sardo (ed esistono attiviste e attivisti del Sud che sui social e offline portano avanti molto bene la narrazione della riappriopriazione dei territori e delle tradizioni).

Scrive Pintus: “In Sardegna le brùscias erano donne definite streghe perché libere, scomode e custodi di poteri dimenticati. Le giovani donne sarde, grazie al femminismo postcoloniale, si stanno riappropriando della cultura, della lingua e della storia sarda, per smettere di essere considerate marginali e per strappare all’Italia le rappresentazioni retrograde dell’Isola.”

Ne ha parlato, in passato, anche Michela Murgia; l’idea della matriarca sarda, forte ad ogni costo, donne come muli da soma, dure, instancabili: anche questo è stereotipo. Così come è forzato il mito delle giudicesse, regine per finta e solo quattro nel corso dei secoli.

Esistono, come spiega Pintus, tradizioni sarde che possono sembrare “femministe”: la trasmissione matrilineare del cognome, l’eredità non per genere, la comunione dei beni fra coniugi. Ma vanno analizzate per ciò che sono, non con l’occhio del “continente”. Un continente che ha colonizzato anch’esso, cercando di riappropriarsi di queste narrazioni così come delle terre, a partire da intere deforestazioni per costruire i binari italiani, passando per la Saras, che inquina tutto il mediterraneo, fino a Porto Cervo, venduta a uomini ricchissimi per un turismo che ai sardi non può essere destinato.

La difesa delle terre è sempre stata al centro delle lotte delle donne sarde, dalla rivolta di Paskedda Zau alle occupazioni del ’69 contro gli espropri dell’esercito. Scrive ancora Pintus: “in Sardegna si trova il 60% del territorio italiano destinato a servitù militari, tra cui i due poligoni più vasti d’Europa, a Quirra e a Teulada. Un’occupazione che sottrae alla popolazione 35mila ettari di territorio in cui si registrano casi di tumori e neoplasie, malattie del bestiame e avvelenamento di terre e corsi d’acqua con danni gravissimi all’economia, all’ambiente e al tessuto sociale locale.”

Una lotta che ci ricorda la Val Susa, in un certo senso. In un’Italia che ci appare frammentata più che unita, se per unita intendiamo la sottomissione ai territori più ricchi e alle potenze con cui prendono accordi. Un’Italia che si è macchiata di crimini coloniali ma che è stata colonia dove c’erano risorse e non soldi.

Abbiamo bisogno di guardare il mondo liberandoci dalle lenti colonizzatrici che non ci accorgiamo nemmeno di portare; altrimenti il nostro femminismo si ridurrà sempre a una rincorsa per diventare come gli uomini che ci opprimono e dividono; abbiamo bisogno quindi di una lotta che distrugga i sistemi di oppressione una volta per tutte ma che unisca, che sia comunitaria. Che sia ridistribuzione e speranza.

Che sia sorellanza.

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