Madri lavoratrici e l'ambivalenza che ogni donna con figli sperimenta

Costrette spesso a rinunciare al proprio impiego per prendersi cura di figli e famiglia, le madri lavoratrici vanno incontro a una serie di difficoltà pratiche ed emotive, tra mom shaming e scarsi supporti economici, a scapito della propria indipendenza e autonomia.

Carla ha 35 anni, ha da poco partorito il suo primogenito e, dopo i cinque mesi di congedo previsti dalla legge, ha deciso di tornare alla sua professione a tempo pieno, senza usufruire del periodo facoltativo di astensione lavorativa e senza cedere alle numerose pressioni del capo finalizzate a un reinserimento part-time.

Una volta seduta alla scrivania, tuttavia, non mancano le osservazioni – non richieste – da parte di colleghi e, soprattutto, colleghe (e madri a loro volta), preoccupate, queste ultime, per le conseguenze di una scelta “prematura” e “inopportuna”. «Ma perché sei tornata a lavoro così presto?», le chiedono. «Perché non approfittarne – proseguono – e trascorrere ancora qualche mese con il tuo piccolo?», fino a giungere al non plus ultra delle domande: «Sei sicura che non patirà?», «Come farà, senza la sua mamma?».

Quello esposto è solo un episodio di fantasia, ma, purtroppo, non si discosta molto rispetto a ciò che, quotidianamente, accade alle madri lavoratrici: donne che, in piena autonomia e coscienza, decidono di tornare a esercitare i propri impieghi, ma che, proprio a causa di tale scelta, subiscono le critiche acuminate di chi si professa non essere d’accordo, alimentando, così, sensi di colpa e di vergogna. In nome del rispetto di una “maternità perfetta” che, però, come è noto, non sarà mai tale, perché sempre soggetta a interpretazioni e prospettive personali.

Chi è, dunque, la madre “cattiva”, in questo caso: quella che decide di riappropriarsi della propria sfera di indipendenza lavorativa o quella che giudica?

Madri lavoratrici: tra difficoltà e mom shaming

Sensi di colpa, ambivalenza decisionale, incertezze. I giorni successivi al parto (il cosiddetto puerperio) sono tra i più delicati e complessi, emotivamente e fisicamente, nella vita di una donna tramutatasi in madre, tra disturbi psicologici, tempeste ormonali e continue trasformazioni del corpo.

Superato (più o meno) indenne tale periodo, non è, però, raro che la neo-mamma avverta il desiderio di riconquistare la propria indipendenza lavorativa, nonostante il nuovo arrivato e gli stravolgimenti apportati da quest’ultimo.

Ed è proprio qui che si inserisce una forma di bullismo tanto sottile quanto pervasiva e deleteria per la salute mentale della madre lavorativa: il mom shaming. Come già accennato mediante l’esempio di apertura, il fenomeno consiste nell’obiezione, derivante in particolare da altre madri, delle decisioni assunte dalla donna presa in considerazione, di cui si intende mettere in discussione metodi di allevamento e, nello specifico, ritorni “precoci” sul posto di lavoro.

In breve: la madre è “cattiva”, non è in grado di essere tale e, in qualsiasi circostanza – soprattutto se legata alla propria professione e alla propria autonomia –, sbaglia.

Come spiega la psicologa e psicoterapeuta di Guidapsicologi.it Rossella Valdrè su Vanity Fair:

Il mom shaming è un fenomeno, diffuso oggi in tutto il mondo ma, a mio parere, più spiccato nei Paesi occidentali, di pressione sociale sulla madre, di critiche maligne sul suo modo di allevare il figlio, che la porta a vergognarsi di essere tale. Si può trattare di qualunque aspetto della maternità, dall’uso del biberon alla scelta di andare a lavorare, giungendo persino al perché si è fatto il taglio cesareo o a come si nutre o si fa giocare un bambino: tutto è sbagliato.

Un fenomeno acuito soprattutto dalla sovraesposizione cui, inevitabilmente, ci conducono i social network, nonché da un’eccessiva “idealizzazione” dei figli, che, come precisa Valdrè, deriva forse dal fatto che

oggi si fanno pochi bambini e questi pochi sono diventati idoli: si attende a lungo un primo e unico bambino, che arriva quando la coppia è matura, e questa maternità dovrà essere perfetta. Ma nessuna maternità, nessuna cosa umana è perfetta, né lo deve essere: una mamma deve poter sbagliare.

Al mom shaming, poi, si affianca tutta la sequela di difficoltà e ostacoli riscontrabili sul luogo di lavoro stesso. Primo tra tutti: il “child penalty gap”, ossia l’ingente dislivello che caratterizza le remunerazioni delle madri rispetto a quelle dei padri e, in generale, le condizioni maggiormente precarie che interessano le donne in confronto al periodo antecedente alla gravidanza.

Basandosi, a sua volta, su un gap salariale già esistente e, purtroppo, particolarmente radicato, il child penalty gap corrode ulteriormente le prospettive di carriera della madre lavoratrice, sottoponendola, come anticipato, a contratti part-time, alla richiesta di maggiore flessibilità, alla rinuncia all’occupazione di posizioni apicali, a compensi nettamente minori e a complessive difficoltà di avanzamento professionale.

Senza dimenticare, infine, il carico mentale che, da sempre, grava sulla donna. Nonostante i miglioramenti che, gradualmente, stanno interessando la società odierna in termini di ripartizione dei compiti domestici e di cura, questi non risultano, infatti, ancora sufficienti ad “alleggerire” la donna, madre e lavoratrice, dalle incombenze familiari, costringendola, spesso, a effettuare, come si legge su Ansa, un “doppio turno” di responsabilità. Innescando un ciclo continuo di lavoro, scadenze e stress.

L’impatto della pandemia sulle madri lavoratrici

In uno scenario già di per sé incrinato, la pandemia da Coronavirus ha acuito le discrepanze sociali presenti e ne ha posto in rilievo le criticità maggiori, inficiando vertiginosamente la condizione delle madri lavoratrici.

Come rivela “Le equilibriste: la maternità in Italia nel 2021”, il report annuale stilato da Save the Children circa la condizione delle donne e delle madri nel nostro Paese, nel corso dell’anno pandemico sono state 96 mila le mamme che hanno perso il lavoro con figli minori, di cui 4 su 5 con figli di età inferiore ai 5 anni.

Motivo: l’ingente difficoltà a conciliare vita familiare e lavorativa. Una situazione di netto squilibrio (soprattutto nei casi in cui i nuclei familiari siano costituiti anche da uomini) che, nella maggior parte dei casi, ha portato le madri lavoratrici a rinunciare al proprio lavoro – o a esserne licenziate – per prendersi cura dei bambini più piccoli.

Una condizione che non continua ad aggravarsi e non accenna a cessare. Come precisa, infatti, la Fondazione Studi Consulenti del Lavoro:

L’Italia continua a rappresentare un unicum nello scenario europeo e internazionale per quanto riguarda il lavoro femminile. A partire dal livello di partecipazione delle donne al lavoro, che da sempre si attesta su valori molto più bassi degli altri Paesi. Ma anche quando le donne accedono al lavoro, la loro condizione occupazionale continua a essere caratterizzata da una debolezza strutturale che finisce per renderle più esposte ai rischi di espulsione dal mercato rispetto agli uomini e alle colleghe di altri Paesi.

E a nulla sembrano valere gli aiuti economici di un Paese, l’Italia, che si professa “pro-vita” ma che, nella pratica, non sostiene adeguatamente la natalità. I supporti previsti sono, infatti, insufficienti, e non prendono in considerazione le complessità “reali” in cui si imbattono le famiglie contemporanee. È il caso, per esempio, dell’assegno unico familiare, il cui importo decresce al crescere del reddito ISEE, fino ad azzerarsi con un ISEE pari a 50.000 euro.

Come spiega Mario Sberna, presidente di Famiglie Numerose:

Il cosiddetto “assegno unico universale” di universale non ha un bel niente. Non essendo tale, vuol dire che non va a tutti i figli che nascono. Basterebbe dire la verità. Questo è un problema che riguarda soprattutto noi, famiglie numerose, perché rivela uno scarso interesse a sostenere la natalità. L’altro aspetto è quello prettamente economico: mi sembra che i soldi che stiano girando siano sempre gli stessi, solo che gli si dà un nome diverso. Perché se si va a coinvolgere anche le partite iva, per cercare di allargare, di dare un minimo di senso all’eccezione “universale”, ovviamente devi metterci molti più soldi: le partite iva sono almeno due milioni di famiglie, quindi bisogna metterci più dei tre miliardi che sono stati versati adesso, per fine luglio.

In un contesto così compromesso e precario, siamo ancora sicuri, quindi, che il “problema” siano le madri lavoratrici?

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