Donne e Olimpiadi: dal rischio pena di morte alla competizione con gli uomini

Il rapporto tra donne e Olimpiadi non è sempre stato roseo, ma, con Tokyo 2020, sembra essere giunto a un buon equilibrio: quelli di quest’anno saranno, infatti, i Giochi Olimpici più bilanciati dal punto di vista della parità di genere. E non mancheranno le novità.

Quelle che avranno inizio il 23 luglio 2021 saranno le Olimpiadi estive più equilibrate a livello di parità di genere. Lo afferma il CIO, il Comitato Internazionale Olimpico, il quale dichiara che la partecipazione femminile raggiungerà, a Tokyo 2020, un nuovo record, con ben il 48,8% delle donne coinvolte.

Un percorso che trova il suo culmine dopo 25 anni di lavoro a stretto contatto con i Comitati Olimpici Internazionali e le Federazioni Internazionali, impegnati nel favorire un aumento dell’ammissibilità delle atlete nei diversi sport annoverati dai Giochi Olimpici.

Compresi i “nuovi arrivati” – baseball/softball, karate, skateboard, speed climbing e surf e, per le donne, canoa e BMX freestyle park riding – che prevedranno anch’essi eventi femminili. Un trend che l’IOC ha intenzione di mantenere e corroborare, come dimostrano le previsioni delle Olimpiadi invernali di Pechino 2022, le quali si appresteranno a raggiungere un record di rappresentanza femminile pari al 45,44%.

Il rapporto tra donne e Olimpiadi, però, non è sempre stato così roseo. Ripercorriamone la storia.

Le donne alle Olimpiadi antiche

Come sappiamo, il patriarcato affonda le radici in tempi remoti. E, naturalmente, ha investito anche i Giochi Olimpici, negati alle donne fin dai loro albori. Secondo quanto riportato dalle fonti antiche, infatti, nel mondo ellenico era severamente vietato, a esse, partecipare alle Olimpiadi, anche solo in qualità di spettatrici.

Il rischio? La pena di morte, operata sulla cima della montagna sacra. Come riporta lo storico Pausania il Periegeta nella sua Periegesi della Grecia – e come si legge su Eredi Biblioteca Donne:

Lungo la strada che porta a Olimpia c’è un monte che ha nome Tipeo e da esso è legge per gli Elei precipitare le donne, qualora si scopra che esse siano andate alle gare di Olimpia.

A sfuggire all’infausto destino vi è stata solo Callipatera, l’unica allenatrice donna della storia dei Giochi Olimpici antichi, la quale, rimasta vedova, decise di allenare il figlio Pisidoro e di accompagnarlo alle competizioni di Olimpia. Colta dall’entusiasmo della sua vittoria, Callipatera scavalcò il recinto per abbracciare il figlio, e, nel farlo, «restò denudata».

Alla donna, tuttavia, fu risparmiata la pena di morte poiché figlia del leggendario pugile Diagora di Rodi e sorella di campioni olimpionici sia del pugilato, sia del pancrazio. In un mondo fortemente maschilista come quello greco, quindi, Callipatera trovò la salvezza per mezzo del suo lignaggio. Ottenendo, però, una piccola soddisfazione: in seguito al suo ingresso, infatti, gli Elei decisero di introdurre una legge che imponesse agli allenatori di entrare nudi nella zona di gara.

Quella di Callipatera, tuttavia, non fu l’unica eccezione. Sempre secondo quanto riportato da Pausania, a partire dal VI secolo a.C. si tennero, nello stadio di Olimpia, i Giochi Erei: gare di atletica femminile nate per volontà di Ippodamia, che sembra formò un gruppo di “sedici donne” in segno di gratitudine per il suo matrimonio con Pelope (il cui dominio territoriale prese, poi, il nome di Peloponneso).

Le competizioni di corsa podistica, dedicate alla dea Era, prevedevano una ripartizione delle partecipanti – rigorosamente nubili – in tre gruppi distinti in base all’età, lungo una pista dello stadio poco più corta di quella maschile – il motivo: la solita, presunta, minore resistenza fisica. Le donne, continua lo storico, gareggiavano

con i capelli pendenti, un chitone poco sopra il ginocchio e con la spalla destra nuda fino al seno.

Il chitone era l’abbigliamento tipico utilizzato dagli uomini impegnati in lavori fisici particolarmente pesanti. Conseguenza: le donne erano vestite come gli uomini, a significare, forse, un rito di passaggio dall’età giovanile a quella adulta. Agli uomini spartani, inoltre, era consentito, a differenza delle donne, presenziare alle gare femminili, anche in vista di possibili matrimoni.

Sempre a Sparta vigeva, poi, una piccola differenza: il popolo lacedemone, infatti, era convinto che per crescere figli forti fosse necessario sottoporre ad allenamento fisico anche le donne. Quella spartana, dunque, costituisce l’unica eccezione nel mondo antico di donne ammesse a quasi tutti gli sport maschili.

Le Olimpiadi moderne: i traguardi femminili

Charlotte Cooper
Fonte: Overtime Festival

Per ritrovare le donne all’interno dei Giochi Olimpici, però, è opportuno effettuare un ampio salto temporale. Dopo le iniziali titubanze di Pierre de Coubertin, infatti, secondo il quale, come si legge su Treccani, lo sport femminile fosse «la cosa più antiestetica che gli occhi umani potessero contemplare», le donne furono ammesse ufficialmente alle Olimpiadi nel 1900, a Parigi.

In quell’occasione, le partecipanti erano soltanto 22, ossia il 2,2% su 997 atleti. Le discipline accessibili erano quelle considerate “tipicamente” femminili: tennis, vela, golf, equitazione e croquet. Tennis e golf costituivano le uniche a partecipazione interamente femminile.

Nell’anno dell’Esposizione Universale, furono tre le donne che si distinsero particolarmente. La prima fu la velista Hélène de Pourtalès, che gareggiò con il marito vincendo la medaglia d’oro e d’argento in due gare. Charlotte Cooper, invece, egregia tennista e già vincitrice, a 25 anni, del torneo di Wimbledon risalente a cinque anni prima, vinse il doppio oro con il collega Reginald Doherty nel doppio misto.

Ma è la storia di Margaret Abbott quella più commovente. A Parigi con la madre Mary per l’Esposizione Universale, Abbott si iscrisse con quest’ultima alla competizione mondiale di golf, registrando il round migliore e vincendo – prima americana nella storia – l’oro olimpico. Senza, però, saperlo. Margaret, infatti, non venne mai a conoscenza di star gareggiando alle Olimpiadi, e la sua vittoria fu resa nota agli eredi solo grazie all’opera di ricerca della professoressa Paula Welch.

Nel corso del secolo scorso, anche per merito dell’esempio delle tre sportive sopracitate, la partecipazione delle donne divenne via via sempre più numerosa, anche grazie all’introduzione di nuove discipline accessibili alle stesse, come il tiro con l’arco (nel 1904), la scherma e il pattinaggio artistico (nel 1924), l’atletica leggera (nel 1928), la discesa libera e lo slalom (nel 1948), lo sci di fondo di 20 km (nel 1984) e il tennis da tavolo (nel 1988).

Fino a giungere al 1991, quando l’IOC ha reso obbligatoria la presenza di concorrenti femminili in tutti i nuovi sport. Questa apertura e le successive modifiche apportate hanno visto un incremento della partecipazione delle donne ai Giochi Olimpici vorticoso, se pur lento.

Ripercorrendo, infatti, i numeri delle Olimpiadi del Novecento, possiamo notare un fiducioso climax ascendente: il 13% a Tokyo, nel 1964, il 23% a Los Angeles nel 1984, il 45% a Rio de Janeiro nel 2016, toccando, poi, il culmine a Londra, nel 2012, con i primi Giochi in cui le donne hanno potuto finalmente gareggiare in tutti gli sport coinvolti.

Il record, prima di Tokyo 2020, spetta, tuttavia, ai Giochi della Gioventù di Buenos Aires tenutisi nel 2018, ossia il primo evento olimpico pienamente gender-balanced della storia. Fino a questo momento.

Apertura alle donne trans: prima volta nella storia

Quelle del 2021, però, saranno delle Olimpiadi “speciali” anche per un altro motivo. Per la prima volta dalla loro creazione, infatti, alle competizioni saranno ammesse anche le donne transessuali. Nello specifico, si tratta di Laurel Hubbard, sollevatrice di peso neozelandese e prima atleta trans a competere ai Giochi Olimpici.

Nonostante sia stata giudicata idonea da tutti i criteri di ammissibilità richiesti dal Comitato Olimpico (compreso il livello di testosterone inferiore rispetto a una certa soglia nel corso dell’ultimo anno), non sono mancate, tuttavia, le polemiche circa la sua partecipazione.

A sollevare dubbi a proposito dell’“eticità” della sua presenza è stata, per esempio, la collega belga Anna Vanbellinghen, la quale ha giudicato la sua iscrizione alle gare:

Ingiusta per lo sport e per le atlete. Chiunque abbia praticato il sollevamento pesi ad alto livello sa che in questa disciplina contano molto le proprie ossa.

Fino alle accuse più gravi – e preoccupanti – dell’ex olimpica neozelandese Tracey Lambrechs, che, come riporta l’Huffington Post, avrebbe affermato che:

Siamo tutti a favore della parità di diritti, ma se un soggetto di 43 anni biologicamente maschio viene autorizzato a vincere le Olimpiadi, quanti uomini, in futuro, cambieranno genere per rubare il podio a noi donne? Sarebbe più corretto assegnare due medaglie.

Peccato che Laurel Hubbard abbia concluso il suo percorso di transizione nel 2012 e abbia già vinto, nel corso di questi 9 anni, un argento ai campionati del mondo del 2017 e si sia posizionata al sesto posto a quelli del 2019. Touché.

Competizioni miste e linee guida

Dai primi Giochi Olimpici a quelli odierni, dunque, la partecipazione femminile si è resa protagonista di una parabola sempre più crescente, al punto che, nel corso dell’inaugurazione di Tokyo 2020, si giungerà a una piena rappresentanza di genere in tutte le 206 squadre coinvolte, consentendo anche alle donne di portare la bandiera, insieme ai colleghi maschi, durante la cerimonia di apertura.

L’attenzione dell’IOC nei confronti della parità di genere si è così acutizzata da aver condotto anche il Comitato alla delineazione di nuove linee guida, funzionali a un tipo di narrazione diversa delle competizioni.

Tra queste, si annoverano, in particolare:

  • Il riconoscimento degli stereotipi e la decostruzione dei cliché;
  • L’adozione di uno storytelling aderente al contesto, in grado di superare i bias culturali e i pregiudizi e di offrire un ritratto bilanciato delle competizioni, senza focalizzarsi su un immaginario sessualizzato, sull’aspetto fisico delle donne e sugli stereotipi tipicamente maschili e femminili;
  • L’utilizzo di un linguaggio inclusivo e rispettoso (aboliti, per esempio, i “Brava come un uomo” o i paragoni con atleti maschili);
  • Il catturare la diversità, e raccontarla.

Soprattutto nelle gare miste, che quest’anno giungeranno a quota 18, il doppio rispetto a quelle dei Giochi di Rio. Come riporta il New York Times, queste ultime includono, tra le altre, la staffetta su pista 4×400, il doppio misto nel ping pong e una staffetta mista per quattro persone nel triathlon.

Un traguardo importante, come conferma anche l’atleta francese 26enne Léonie Périault, la quale ha dichiarato che:

Mi piace competere con gli uomini: facendo triathlon fin da giovane, correvo contro i ragazzi e volevo batterli! Ora, a livello di élite, le gare sono separate, ma corriamo sulle stesse distanze e penso che dimostri che le donne sono tanto capaci di grandi prestazioni quanto lo sono gli uomini. In particolare, il formato della staffetta mista sottolinea quanto siano esigui i margini che separano uomini e donne. Nella staffetta mista, infatti, siamo a pari merito, uomini e donne. Eventi misti come questa staffetta consentono di rendersi conto non solo che le donne possono correre con gli uomini, ma che la differenza di livello atletico non è molto importante. Lo sport è universale e fatto per tutti.

Che siano, quindi, delle buone Olimpiadi. Questa volta, però, non solo per tutti, ma anche, e soprattutto, per tutte.

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