Cos'è la positività tossica, che non ha nulla a che fare col pensiero positivo

Fra il Covid-19, l’imporsi dei social network come mantra per le nostre vite, l’avvento delle metodologie di coaching, l’onestà del pensiero positivo sta sconfinando sempre di più in un ottimismo eccessivo e dannoso. Vediamo come e perché.

Ultimamente e repentinamente si è diffusa una positività tossica, che ha davvero poco a che vedere con la tendenza a pensare positivo. In realtà, l’ottimismo esagerato e totale può diventare controproducente, se non addirittura tossico. Confidare in una speranza ed affrontare la vita con serenità sono cose che differiscono dalla positività tossica, la quale costruisce invece una visione distorta della realtà, impedendone la completa accettazione.

L’ottimismo dona l’opportunità di sperare in un futuro positivo e adoperarsi per conquistarselo; l’ottimismo tossico lo programma in maniera ovvia e scontata. Desiderare che la vita sia ricolma di gioie e pensare che basti desiderarlo affinché questo accada, in alcuni casi supera il limite delle possibilità statistiche che il fatto possa realmente verificarsi.

Spingersi oltre quel limite può voler dire “negare” che la vita umana sia un insieme di gioie e dolori, rifiutando in maniera tossica ed esasperata di accettare che la vita e le persone possano non essere sempre perfette come vorremmo. Trattandosi di una tendenza dilagante e molto spesso invalidante nell’ambito dei rapporti sociali di ogni genere, è importante analizzare quanto la positività tossica possa essere dannosa e come comportarsi per allontanarla.

Cos’è la positività tossica (o toxic positivity)

Positività tossica

La psicoterapeuta Karen R. Koenig ha pronunciato la seguente definizione: “La positività tossica implica concentrarsi sul permettere a te stesso di provare, o esprimere solo emozioni che la nostra cultura considera positive perché ci fanno sentire bene“. Afferma anche che “più che essere positivo e ottimista di fronte a lotte o sfide, la positività tossica riguarda negare, ridurre al minimo e mettere a tacere i tuoi (o altri) sentimenti autentici“.

Reprimere ad ogni costo i sentimenti negativi e le reazioni fisiologiche a determinati momenti difficili può risultare dannoso, anche per la salute, poiché esistono momenti in cui imporsi psicologicamente che un successo lavorativo o la guarigione da una malattia dipendano solo dal “pensare positivo” può portare a delusioni talmente grandi da essere in grado di danneggiare irreparabilmente la psiche.

A chi non è mai capitato, ad esempio, di entrare sui social e pensare a quant’è bella e gioiosa la vita degli altri? Questo perché, nell’ambito di uno sforzo alla perenne positività tossica, i social network sono quella realtà dove le persone tendono a mostrare soltanto il meglio, mostrandosi magari anche in maniera veritiera, ma omettendo il negativo, l’imperfetto. In poche parole, pubblicano gli istanti felici, interessanti, condividendoli con gli altri.

In molti ricorderanno, senza dubbio, la celebre grafica che spopolò sin dai primi anni dell’era social e digitale: Keep calm and carry on. Quest’immagine ha in realtà una storia ben più radicata, che ha origine nel 1939 da un poster di propaganda inglese, in quale si prefiggeva lo scopo di diffusione in caso di sventura (la qual cosa poi non è mai realmente accaduta). Il poster venne acquistato all’asta nel 2000 da un venditore di libri britannico, il quale iniziò a venderne la riproduzione fino a creare un vero e proprio brand nel 2007.

Keep calm and carry on” è stato uno dei primi meme di Internet e di Facebook e ha forse dato il via al fenomeno della positività tossica. Quel Facebook e quei social nati per mettere in comunicazione gli individui, oggi sono portatori di ansie sociali e tossicità, in un panorama che appare oggi notevolmente mutato. Perché secondo i fanatici del fitness, i fondamentalisti della religione, i blogger e i coach pluripremiati, tutti molto attivi sui social, se stai male devi concentrarti sul bicchiere mezzo pieno, se stai male in realtà sei solo troppo negativo.

Cause e origini della positività tossica

Pensa positivo positività tossica

Questa manifestazione è stata definita “Toxic positivity” o in molti altri modi, ma di base tende a riferirsi ad un’imposizione culturale, basata sull’ottimismo esasperato e sull’industria che oramai si regge su di esso. Il problema di fondo, probabilmente, non è la semplice approvazione della mentalità dello stay positive, ma il fatto che chi ci porta a condividerla cerca indirettamente di venderci un prodotto.

Un prodotto che utilizza la propagazione di una positività tossica nella psiche, per far sì che la stessa sia portata a sentire il bisogno di acquistare un servizio legato al benessere (che sia un corso motivazionale, di fitness, di educazione alimentare o quant’altro) in grado di cambiare la vita.

L’ottimismo è un elemento importante per una vita serena, aiuta a vivere a pieno le emozioni positive e ad affrontare meglio quelle negative, ma una continua esposizione alla positività cozza totalmente con la realtà umana, tutt’altro che perfetta, motivo per cui rischia di provocare nella società una profonda spaccatura fra realtà e finzione, nonché tanta frustrazione.

Lo testimoniano esplicitamente i dati sullo status mentale della popolazione mondiale provenienti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità: oltre 300 milioni di soggetti soffrono di depressione ed è un dato in continua crescita, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo. La depressione è diventata la prima disabilità nel mondo, seguita dall’ansia che tende ad espandersi sempre di più. Eppure, spiando i profili Instagram della maggior parte degli utenti, tutti sembrano vivere una vita di edonismo e felicità.

Quello che se ne deduce, quindi, è che si sia cercato di lucrare e creare un business su un problema sociale e culturale. I disagi psicologici, come in questo caso quelli apportati dalla positività tossica, non sono solo una problematica soggettiva ma riflettono molto spesso una diffusione capillare dovuta all’imposizione di un determinato sistema socio-economico, sempre più pretenzioso, soffocante e di conseguenza stressante.

La positività tossica basata sull’eccesso di inutile ottimismo non risolve i problemi all’origine, evidenziando la necessità di un cambiamento sociale e organizzativo, anzi, non ha alcun interesse a farlo, altrimenti è probabile che nessuno troverebbe più così utile e vitale l’acquisto di un’app che ti aiuta ad eliminare la negatività o di un corso motivazionale su come realizzarsi lavorativamente in cinque semplici mosse. Questa metodologia è diventata quasi necessaria, come conseguenza di una progressiva strumentalizzazione del sano spirito positivo da parte del settore del marketing, il quale ha sfruttato il concetto di “felicità” per venderci la felicità stessa.

È molto semplice: la toxic positivity si genera da un’avversione radicale verso tutte le emozioni negative e impone di reprimerle, effettuando una netta divisione fra buoni e cattivi, felici e infelici, che nel lungo periodo si rivela controproducente e può generare ansia da prestazione. La repressione interiore, di qualsiasi tipo, genera sempre frustrazione ed insoddisfazione, che sono già nuove emozioni negative. Fare pensieri positivi, la miracolosa ricetta, non rende quindi felici, ma anzi raddoppia l’infelicità nel tentativo di reprimerla.

Lo illustrano con chiarezza anche alcuni studi pubblicati su una nota rivista scientifica: i soggetti che credono di poter modificare le proprie emozioni con la sola forza di volontà e la positività elevata alla massima potenza, sono gli stessi che successivamente finiscono per incolparsi delle proprie emozioni negative.

I social non sembrano quindi essere la causa della positività tossica in quanto tale, ma risultano ad oggi i mezzi che alimentano questo disagio ed attraverso il quale lo si amplifica, portando gli utenti a sentirsi inferiori o sfortunati, poiché in continua competizione con gli standard perfetti che gli altri individui diffondono sui propri profili virtuali.

Le conseguenze della positività tossica

Depressione e positività tossica

La positività tossica si identifica in questo senso come una vera e propria violenza psicologica, sia per chi decide di basarvi la propria intera esistenza, sia per chi combatte il mostro della depressione o altri disturbi mentali, magari sottovalutandoli, ignorandoli o vergognandosene e cercando quindi di reprimerli. Per loro, l’idea che sia sufficiente pensare positivo per far sì che tutto vada per il meglio ha come conseguenza quella di far ricadere sulla propria persona la colpa di ciò che accade di negativo o nefasto.

E questo, è un senso di colpa del tutto infondato, per lo meno dal punto di vista medico, in quanto è comunque scientificamente inammissibile pensare che le persone scelgano consapevolmente di ammalarsi di depressione: significherebbe negare che si tratti di una malattia a tutti gli effetti, concetto ormai ampiamente dimostrato. Nel caso della semplice tristezza in senso stretto, va ricordato che è un’emozione umana del tutto fisiologica, che tutti sperimentano spesso nell’arco della vita e per i più svariati motivi, da non trascurare ma per la quale serve a poco cercare la causa nella scarsa positività compulsiva.

Come spiega la psicologa Susan David della Harvard Medical School, essere positivi è quasi diventato politically correct, nella misura in cui la positività tossica esige dai malati di cancro che si pensi positivo, inculcandogli che questo servirà a farli sentire meglio. A chi ha seri motivi per arrabbiarsi, viene detto di non farlo. Una vera e propria dittatura, quella della positività tossica, una positività sbilanciata e poco coerente con la realtà.

Le conseguenze dannose di questo modus operandi possono essere anche più tangibili e facilmente spiegabili, volendo, in cinque punti fondamentali, i quali mettono in luce la trascuratezza personale che si genera dalla toxic positivity.

  1. Mentire: è come se alimentare un entusiasmo ed una fiducia eccessivi, rifuggendo sempre la realtà dei fatti, equivalga a mentire a se stessi, anche inconsapevolmente e continuando così a sguazzare in un’ignoranza di base.
  2. Vedere solo quello che fa più comodo: l’adozione di una positività tossica conduce ad una parziale cecità. L’eccesso di ottimismo fa passare in cavalleria i campanelli d’allarme, porta gli individui a credere di essere esageratamente apprensivi e disfattisti davanti ad un ipotetico problema, facendo sì che esso si trascini nel tempo fino a peggiorare.
  3. Mancare di obiettività e realismo: una positività tossica ostacola la visione reale della verità e della realtà, impedendo al soggetto di adeguarsi ad esse e di prenderne coscienza, facendo dei passi per modificare il proprio comportamento e smettendo di farne nella direzione sbagliata, magari verso un qualcosa di irrealizzabile.
  4. Basare la vita su aspettative irreali: molte persone, forse la maggioranza, basano la propria esistenza su quello che sperano di realizzare, alimentando altissime aspettative e vivendo quindi la propria vita distaccati dal presente e dalla realtà.
  5. Non procurarsi un paracadute: in qualsiasi ambito della propria vita, soprattutto per i piani più importanti ed impegnativi, è fondamentale mettere in conto gli imprevisti o gli improvvisi cambiamenti, in modo da essere sempre pronti ad aggiustare il tiro ed eventualmente attivare un piano B. La positività tossica pone degli ostacoli in questo senso, poiché porta a scommettere, con la sola forza dell’ottimismo, sul raggiungimento di un determinato obiettivo, senza minimamente considerare l’ipotesi di un fallimento.

Nessun sentimento è buono o cattivo, la tristezza non è meno utile dell’ottimismo e della gioia, tutte le emozioni sono importanti e sono necessarie per sopravvivere e per avere successo. Sempre secondo Susan David, vanno interpretate non come un’imposizione ma come punto di partenza per un’attenta analisi della propria condizione e delle possibili vie d’uscita.

Come superare la positività tossica

Positività tossica e rimedi toxic positivity

Innanzitutto, il punto di partenza consiste nell’individuarla, in se stessi o negli altri, identificando nel proprio comportamento quella tendenza a volersi sentire sempre bene o a far sentire bene qualcun altro, come pure identificando nel comportamento di un altro individuo quella tendenza a rifiutare le conversazioni caratterizzate da disagio, con conseguente rifiuto a voler ascoltare i sentimenti negativi altrui e ad esprimere i propri.

Lo scenario, tuttavia, anche sui social, sta incominciando a cambiare: sono sempre di più le persone che, soprattutto su Instagram, affrontano tematiche relative ai disagi psicologici, raccontando le loro esperienze e i loro cammini di terapia. Conseguentemente, vengono lanciati messaggi sull’inevitabilità delle debolezze umane e sulla normalità delle emozioni negative, una ricchezza tanto quanto lo sono quelle positive ma che la positività tossica prova a reprimere in ogni modo.

Ma come fare ad allontanare la positività tossica senza cadere nel pessimismo e nella negatività controproducente? Come spesso accade, la giusta misura si trova nel mezzo: nella nostra cultura, si tende quasi sempre a credere che le cose buone e belle siano più di quelle brutte e tragiche, ma è effettivamente un ragionamento immaturo e, come tale, dannoso, proprio come lo è quello eccessivamente pessimistico. L’eccessività di gioia ed autocontrollo possono trasformarsi in una totale mancanza di empatia.

Gli elementi importanti sui quali ragionare per poter aprire gli occhi davanti alla positività tossica sono differenti, primo fra tutti la reale comprensione di che cos’è l’ottimismo. “Hai un problema? Non fa niente, sorridi alla vita e la vita ti sorriderà”. In realtà, l’unica utilità per la risoluzione di un problema consiste nel porsi le giuste domande rispetto allo esso, per capire se sono stati commessi degli errori in modo da non ripeterli di nuovo. L’ottimismo sano è quello che ci fa andare avanti, incassando le sconfitte con la consapevolezza di ciò che si è sbagliato.

In concomitanza, un’ulteriore strategia da adottare è quella dell’ottimismo attivo e reattivo: pensare positivo è utile per la nostra salute mentale, ma non basta a raggiungere un obiettivo o superare la tristezza. Se si desidera qualcosa, l’unica maniera è impegnarsi a fare qualcosa per ottenerlo, per cambiare le carte in tavola. Ottimismo, azione e un progetto concretamente realizzabile sono elementi che devono andare di pari passo.

In ultimo, è utile aspirare al meglio preparandosi al peggio, nel caso in cui le cose non dovessero andare secondo i piani. Ciò non significa essere pessimisti a priori ma anticipare i possibili ostacoli e problemi che potrebbero sbarrare il cammino, giocando d’anticipo sulle ipotetiche soluzioni del caso. Questa strategia è senz’altro utile a massimizzare i risultati ed evitare di dover rinunciare a qualcosa che si desidera.

In questo caso, la soluzione si trova nel giusto equilibrio e nella giusta dose di razionalità, evitando strumenti sociali tossici che spesso fungono da specchietto per le allodole. Anche “Keep calm and carry on” era la nuvoletta rosa su cui si voleva che gli inglesi vivessero, per allontanarli dalla consapevolezza dell’imminente minaccia nazista.

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