L’attuale periodo che vede il mondo intero impegnato nella lotta alla pandemia da Covid-19, tra le moltissime sfide e difficoltà che ci ha costretto ad affrontare, ci ha purtroppo messo di fronte anche a una recrudescenza di manifestazioni e ondate di odio, che per un attimo avevamo sperato di esserci lasciati alle spalle, proprio per via della sofferenza e del dolore vissuto nel 2020 e nell’anno in corso.

Eppure, anche in un momento così delicato e complesso, che sembrava aver ridefinito di colpo le nostre priorità, torna prepotente il bisogno di scagliarsi contro l’altro. Per infelicità, frustrazione, invidia o altro, infatti, le nuove frontiere dell’odio questa volta toccano la categoria dei viaggiatori, i nuovi “colpevoli” da mettere al patibolo in tempo di pandemia. Ecco come nasce il fenomeno del travel shaming.

Travel shaming: cosa significa?

Con travel shaming si intende la tendenza al biasimo e alla condanna di chi, in un periodo di restrizioni e divieti, ha la possibilità di viaggiare o di raggiungere le seconde case. È una reazione che si manifesta soprattutto via social, in molti casi proprio attraverso frasi di accusa o critiche a commento di immagini o video postati dalla meta del viaggio effettuato.

Non è che l’ultima manifestazione dello shaming in periodo di pandemia: abbiamo infatti assistito al mask-shaming, la tendenza cioè a criticare chi indossa o non indossa – in base alle opinioni – la mascherina, al diner-shaming, quella di scagliarsi contro persone che hanno mangiato fuori casa, e qualsiasi altro tipo di atteggiamento di critica e condanna nei confronti di chi ha assunto atteggiamenti di socialità più liberi e meno rigidi – ma comunque sempre concessi dalle regole vigenti.

Cosa c’è alla base del travel shaming?

La sensazione alla base di questo atteggiamento è, come sempre accade in manifestazione da parte degli haters, una sorta di invidia, e quindi critica feroce, verso una categoria considerata di privilegiati.

Spesso i destinatari di questo atteggiamento sono le persone più fortunate, come celebrità, influencer e personaggi di successo, oggetto di invidie e bersaglio di critiche e moralismi, che possono sfociare non di rado in veri e propri attacchi di odio.

E anche in questo caso, i vip non sono stati risparmiati: commenti di travel shaming hanno inondato l’account Instagram di Kylie Jenner, che la scorsa estate si è diretta a Parigi, meta all’epoca bandita per gli americani, o della sorella Kim Kardashian, che recentemente, in occasione del suo 40esimi compleanno ha regalato ai membri più stretti della sua famiglia un viaggio su un’isola privata nella Polinesia francese, dopo due settimane di controlli medici e regolari quarantene.

Ovviamente, il fenomeno in questo caso ha toccato però anche persone comuni che per svariate ragioni, tra cui anche motivi di necessità impellenti, come presenziare a un funerale di un parente, si sono viste inondate di insulti per via della loro possibilità di prendere un aereo e muoversi in un’altra città.

Stando ai dati che riporta il New York Times, il fenomeno pare essere piuttosto diffuso: da un’intervista effettuata da Ketchum Travel, un’agenzia di pubbliche relazioni, su 4.000 americani, emerge che di questi, due terzi ha riferito che avrebbe giudicato negativamente chi avesse viaggiato prima che venisse considerato “sicuro”. Inoltre, la metà degli intervistati ha mostrato il desiderio di censurare i propri post sui social media per evitare di essere oggetto di travel shaming.

Secondo Scott Keyes, fondatore di Scott’s Cheap Flights, questo sentimento purtroppo comune nasce soprattutto per via del periodo stressante che stiamo vivendo e che da più di un anno ci forza a fare conti con morti, sofferenze, divieti e lockdown, con le conseguenze che tutto questo comporta: “È naturale per le persone criticare gli altri durante un periodo stressante come una pandemia perché stiamo tutti cercando qualcuno da incolpare”, riferisce a USA Today.

Krista Thomason, professoressa associata di filosofia dello Swarthmore College e autrice del libro Naked: The Dark Side of Shame and Moral Life, crede che dietro a questo atteggiamento censorio e di biasimo, ci sia ben altro rispetto alla semplice paura per i rischi per la salute, e che il bisogno di far vergognare qualcuno per i suoi gesti – comunque legittimi – nasca piuttosto da emozioni e impulsi più profondi e viscerali.

Anche Sue Scheff, co-autrice del libro Shame Nation: The Global Epidemic of Online Hate, ha detto a USA Today che questo è solo un’altra manifestazione del bisogno diffuso di ergersi a giudice delle vite e delle abitudini altrui:

Il travel shaming è un altro modo che stanno mettendo in atto per diventare giudice e giuria di questo mondo.

E aggiunge che non c’è niente di sbagliato nel mettere in guardia parenti e persone care da eventuali pericoli che potrebbero correre viaggiando, purché questo non si traduca in un attacco di odio o in una condanna già emessa:

Puoi dire: ‘Ehi, l’Europa sembra una grande idea, tuttavia, lascia che ti dia qualche consiglio su come farlo in modo sicuro’. Se puoi essere costruttivo piuttosto che combattivo, la gente ti ascolterà.

Non tutti, infatti, stanno viaggiando verso una meta esotica per fare una vacanza in pieno relax; molti viaggiano per lavoro, necessità mediche o di altra natura, per ricongiungersi con parenti che non vedono da mesi o addirittura per partecipare a funerali. Altri raggiungono le loro seconde case, quando ovviamente è consentito dalle disposizioni dei governi.

Eppure, sembra che la furia cieca dei moralizzatori del web e dei social trascuri questo dettaglio essenziale: la legittimità di quel viaggio, di quello spostamento, di quel trasferimento nella seconda casa.

Sembra cioè che l’obiettivo primario non sia essere cauti e cercare di responsabilizzare gli altri, in nome di un bene comune, ma piuttosto scagliarsi contro il privilegiato di turno, come reazione a uno stato di frustrazione, invidia e infelicità, sentimenti che manifestano senza dubbio disagio e sofferenza, ma che non possono tradursi nello sport dell’odio verso gli altri.

Il caso di una travel influencer – categoria, come intuibile, tra le più prese di mira – è piuttosto eloquente. Barbora Ondrackova ha rivelato a Insider di aver viaggiato per lavoro, rispettando tutte le norme anti-Covid, ma di aver ricevuto molti commenti negativi sotto i suoi post. Così si è espressa in proposito:

Personalmente non capisco come una persona che non mi ha mai incontrato, non mi conosce personalmente e non ha nulla a che fare con me, abbia il coraggio di dire che sto infrangendo le regole, non indossando maschere e ‘diffondendo il Covid’ – che non ho mai preso fino ad oggi – sulla base di un video di 25 secondi. Penso che alcune persone potrebbero essere invidiose. […] So che siamo nel mezzo di una crisi e che molte persone sono senza lavoro in questo momento, tuttavia, viaggiare è il mio lavoro e se mi è permesso, lo farò – in sicurezza.

Travel shaming, lockdown e pandemia

I lunghi periodi di lockdown e isolamento, le difficoltà economiche, il peso psicologico della vicenda e l’incalcolabile portata del dramma umano che stiamo vivendo hanno senza dubbio creato condizioni di fragilità, rabbia e frustrazione. La situazione ha poi esacerbato differenze sociali ed economiche, che hanno influito notevolmente sulle condizioni di vita di questo periodo difficile e senza precedenti, indubbiamente non vissuto da tutti allo stesso modo.

Il “gioco” di scagliarsi contro i privilegiati, nell’illusione di mettere a tacere quel senso di frustrazione, colpendo chi, nella nostra ottica, è colpevole di avere più di noi, è però controproducente e non porta benefici a nessuno: non ci rende migliori, non ci rende liberi e, soprattutto, non ci ridà la vita di prima.

Il linguaggio dell’odio è, però, purtroppo una tendenza a oggi diffusa anche per via di certi tipi di comunicazione, che da tempo vengono veicolati dalla politica, dalla stampa e dai media, e non solo nel nostro Paese. E solo una presa di coscienza globale sull’inefficacia di certi tipi di dinamiche e linguaggi potrà davvero contribuire a spegnere comportamenti tossici e fondati sull’odio, piuttosto che sull’empatia e l’accoglienza dell’altro.

L’esperto di viaggi Gary Leff  ci invita a vedere la situazione da un nuovo punto di vista:

Se mai torneremo alla normalità o stabiliremo come sarà la nuova normalità, sarà vedendo come vivono le persone. Condividere sui social media, può diventare parte del processo di recupero. Non si tratta solo di accendere un interruttore. Le persone stanno cambiando i loro comportamenti, il loro quadro di riferimento.

Leff ci dice ciò che vedere persone celebri, semplici amici e seguitissimi travel influncer salire su un aereo o visitare città straniere dovrebbe essere per noi motivo di speranza e un segno che presto le cose torneranno alla normalità. È come ri-imparare a vivere.

Accanto a questo, però, è indubbio e comprensibile che ci sia una certa delicatezza da parte di chi si sente privilegiato e teme di poter essere indiscreto nei confronti di persone in difficoltà o che si sono trovate a vivere in questa circostanza condizioni particolarmente gravi, come dolori, perdite e lutti. Questa sensibilità si traduce anche nel timore di pubblicare foto dei propri viaggi, di mostrarsi e sentirsi cioè felici in un momento che ha provocato dolore e infelicità in tutto il mondo.

Il New York Times racconta il punto di vista di una giornalista 39enne, Catharine Jones, reduce da un recente viaggio con la famiglia. Il desiderio della donna di condividere sul suo profilo un momento di felicità, come avrebbe fatto in un periodo normale, è subito stato seguito dal timore di aver mancato di rispetto alle persone impossibilitate a muoversi e dal senso di colpa:

Subito dopo averla postata, ho pensato, ‘Aspetta un secondo’, sarò giudicata per aver fatto questo? La gente dirà: ‘Aspetta, hai lasciato la tua casa? La seconda cosa che mi è passata per la testa è stata la consapevolezza di quanto siamo fortunati: a viaggiare, a poter spendere soldi, ad avere un fine settimana libero.

E aggiunge poi:

Viviamo in questo momento in cui le disuguaglianze di lunga data sono particolarmente evidenti e la linea di demarcazione è tra le persone le cui vite rimangono relativamente normali e le persone le cui vite sono state completamente stravolte da questa pandemia. Sento che le foto delle vacanze segnalano al mondo: ‘Ehi, non è così male! Ed è stato davvero così male per molte, molte, molte persone.

Eppure in questo caso, il privilegio di pochi, anziché scatenare odio e invidie, potrebbe essere un modo per ricordare a noi stessi di quella vita più normale e libera che presto, si spera, potremo tornare a fare.

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