Le persone che ricorrono a un’interruzione volontaria di gravidanza, nel nostro immaginario collettivo, rientrano all’interno di schemi abbastanza precisi e riecheggianti.

Descriverne i contorni è abbastanza semplice: donna, giovane, sprovveduta, senza possibilità economiche per pensare di proseguire la gravidanza, generalmente affranta e addolorata per il resto della sua esistenza.

Ecco, mi spiace (ma anche no) pensare di disattendere le aspettative, ma la faccenda risulta assai ben più articolata e complessa. Il problema principale, in questo tipo di analisi, risiede proprio nelle aspettative sociali e morali che si nascondono dietro il tema dell’aborto.

Chi abortisce perde, in un certo senso, lo statuto di persona, per ritrovarsi in quello di schema, di archetipo ancestrale, perdendo corpo, forma, e soprattutto voce in capitolo.

Moltissime persone scelgono di non raccontare pubblicamente del proprio aborto per paura di essere giudicate, additate e colpevolizzate.

Come “IVG, ho abortito e sto benissimo” ne sappiamo qualcosa e lo abbiamo condiviso in questi anni con le persone che ci leggono, proprio per trasmettere l’idea che non tutti i tipi di vissuto sono accettati in questa società che ammette un unico tipo di visione e inquadramento per cose, persone e soprattutto per i vissuti.

La realtà, supportata da queste esperienze, dai dati e da chi lavora su questo tema, potrebbe fornirci degli spunti interessanti di riflessione, se almeno fossimo disposti, anche solo in parte, a leggerli sotto una luce diversa. Proviamo, quindi, a capirci qualcosa in più.

Anche le madri abortiscono, e sono la maggioranza.

Come vi anticipavo, una delle convinzioni più comuni riguarda il fatto che ad abortire siano soprattutto le ragazze giovani, assolutamente sprovvedute e poco informate sui metodi contraccettivi (che se anche fosse, ci sarebbe da domandarsi di chi è la responsabilità visto che si continua ad ignorare l’educazione sessuale come pratica fondamentale all’interno dei luoghi di formazione).

In realtà, secondo l’ultimo report del Ministero della Salute sull’applicazione della 194/78, oltre a notare un decremento generale dei tassi di abortività (in particolare, proprio nella fascia inferiore a 20 anni), si nota anzitutto che i tassi più alti restano fra le donne in età compresa tra i 25 e i 34 anni.

Inoltre, il 45,3% delle donne italiane che ha eseguito una IVG non aveva figli. Quindi questo cosa significa? Rullo di tamburi… esatto, se la matematica non ci inganna, stiamo dicendo che il 54,7%, quindi la maggioranza, hanno già figli.

Molto probabilmente, inoltre, le persone che decidono di abortire e hanno già figli, sono all’interno di una relazione stabile, altro grosso elemento di confusione. Infatti, si tende a credere che chi abortisce lo fa anche a causa di un rapporto poco solido, cosa che in molti casi non è assolutamente vera.

Ora, nell’offrire questi dati non sto certo dicendo che la genitorialità non sia un’esperienza soddisfacente e appagante, per chi la sceglie, ma forse possiamo dedurne che non sempre una gravidanza può essere un’esperienza piacevole e desiderata.

Se sei già madre e non vuoi portare avanti la tua gravidanza non c’è nulla di male; questo non ti rende una cattiva madre o una brutta persona, meno che mai una cattiva compagna. Semplicemente, forse, non è il momento più adatto, per tante ragioni diverse, e nessuno può farti sentire inadeguata o incapace.

Se ce lo ripetessimo più spesso, e soprattutto se lo ripetessimo alle persone intorno a noi, forse sarebbe tutto più semplice.

Esistono le persone che abortiscono più di una volta, e non c’è nulla di male.

Sempre secondo il report nazionale, nonostante un tasso di diminuzione dal 2017, si rileva una percentuale di IVG effettuate da persone con precedenti esperienze abortive, pari al 25,5%. La percentuale maggiore coinvolge, in particolare, donne straniere.

Questo significa che l’aborto sia considerato alla stregua di un contraccettivo? Assolutamente no. Il problema, evidentemente, risiede nella mancanza di una adeguata formazione contraccettiva, che in caso di IVG, dovrebbe essere valutata e considerata già immediatamente dopo l’aborto, cosa che invece in molti casi non avviene.

Aggiungiamoci anche che la contraccezione nel nostro Paese non è gratuita, se non in alcune regioni e per alcune categorie specifiche, e il gioco è fatto.

Come sempre capita, le categorie maggiormente marginalizzate sono quelle che subiscono con ancora più forza le conseguenze dei disservizi e di una organizzazione adeguata.

Consideriamo, inoltre, che in moltissimi presidi della salute pubblica mancano mediatori culturali, che sarebbero necessari per approcciare a donne migranti, che spesso si trovano a far fronte a difficoltà linguistiche e culturali.

Abbiamo abortito… e stiamo benissimo.

Quella sull’aborto vissuta come esperienza dolorosa e traumatica è uno scoglio durissimo da superare nella nostra cultura.

“Paragoni l’aborto a una seduta dall’estetista”, “per te abortire è come fare una passeggiata”, e così via. Lo dirò senza troppi giri di parole: per molte persone l’aborto è un’esperienza di liberazione, di autodeterminazione sul proprio corpo e sulla propria vita.

Questo perché non tutte le gravidanze sono desiderate, e non c’è nulla di male.

“Mi sono sempre sentita in colpa per non essermi mai sentita in colpa”, è una delle prime frasi che ho raccolto su “Ivg, ho abortito e sto benissimo”, e questa frase ha accompagnato la storia di molte persone che continuano a scrivermi da quasi 3 anni.

Ma questo non si può dire nella nostra cultura, perché il giudizio e la colpa sono un peso troppo grande da portare. Una lettera scarlatta cucita addosso che non abbiamo più voglia di portare, soprattutto se l’aborto risponde a una nostra scelta personale, che sia presa dopo un secondo o dopo una settimana.

Anche le persone trans* e non binarie abortiscono.

Se l’aborto, per le persone cisgender (identificate con il proprio sesso e il genere attribuito alla nascita), è un diritto molto difficile da vedere applicato, per le persone transgender e non binarie è praticamente impossibile. Non tanto per ottenere un’interruzione volontaria di gravidanza, quanto per vedersi riconosciutə come “aventi diritto”.

L’ostacolo maggiore, in questo caso, è nella mancanza di formazione e di corrette informazioni da parte del personale sanitario. La salute riproduttiva, il più delle volte, non tiene conto delle esigenze e delle istanze di soggettività non normate, e questo non può più essere tollerabile.

I protocolli e i report per l’IVG coinvolgono soltanto le donne, escludendo una fetta considerevole della nostra popolazione, allo stesso modo la formazione del personale medico e sanitario.

Questi sono alcuni esempi per provare a scardinare qualche convinzione e stereotipo che investono le persone che abortiscono.

So che semplificare la realtà e trovare un colpevole è molto più comodo e sicuro, ma le narrazioni e le storie sono assai più complesse di quello che potremmo aspettarci.

Relegare al silenzio di uno stereotipo i nostri corpi e i nostri aborti non è più un’opzione. Non siamo più dispostə a fare delle nostre scelte un cartello politico da sfruttare in sede elettorale. Le nostre rivendicazioni valgono molto più di ogni pregiudizio.

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