Qualche anno fa, Stella (nome di fantasia) mi aveva già confidato un pezzo della sua storia molto doloroso. Lo aveva fatto perché convinta che la sua esperienza potesse aiutare altre persone a non sottovalutare la violenza di certi atti, perché solo riconoscendola e contrastandola si possono davvero cambiare le cose.

Questo l’articolo in cui racconta la violenza sessuale subita:

Oggi Stella è tornata a chiedermi di farle da megafono per un altro pezzo di storia, se possibile ancora più intimo, riguardante ancora una volta il tema della violenza. E non è un caso se l’argomento è lo stesso: la violenza non genera violenza solo come autogenesi aggressiva, è un circolo vizioso nel quale, spesso, a spianare la strada a comportamenti aberranti è la passività con cui li si accetta. Non occorre insomma essere violenti per contribuire al mantenimento di una violenza sistemica.

Un esempio di questa subdola e silente infezione è la violenza genitoriale, un tema tanto diffuso quanto ignorato. Perché è palese che i bambini non vadano toccati, è un mantra che accomuna tutti quanti, uno slogan spesso abusato anche in politica, dove il fanciullo è usato come simbolo estremo di innocenza, da difendere a ogni costo (spesso anche da nemici immaginari). Peccato poi che nella pratica, i bambini siano in realtà alla mercé di una podestà genitoriale, che se è giustamente impossibilitata per legge e morale a eccedere certi limiti, può invece concedersi una totale libertà entro alcuni confini considerati accettabili, per non parlare dell’immenso isolamento che alcune mura domestiche riescono a concedere.

“Uno schiaffone non ha mai fatto male a nessuno” è ad esempio una frase che si sente spesso a commento di qualche bravata giovanile. E su questa linea (se non di peggio) sono stati i commenti a questo mio articolo, dove nonostante ponessi la domanda retorica “può la violenza educare alla non violenza?” non sono mancati i consigli dei pedagoghi social sulle innumerevoli punizioni corporali da infliggere al ragazzino. Sempre per educarlo, ça va sans dire.

Chiaro, c’è differenza tra la storia di Stella (qui di seguito raccontata con le sue stesse parole) e un semplice paio di schiaffoni. Quest’ultimi li abbiamo presi davvero tutti e sono una violenza a cui si sopravvive con una facilità imparagonabile rispetto ad altre forme di aggressività più gravi; tuttavia, è importante riconoscere che si tratta pur sempre di violenza. Quest’ultima è usata come strumento educativo da sempre, frutto di una mentalità utilitarista, interessata solo al beneficio immediato e non alle ripercussioni a lungo termine. È dalla violenza genitoriale che nascono tutte le altre forme di violenza. È da qui che si innesca quel meccanismo paradossale che non ti fa affrontare il gesto violento sul momento, una difesa passiva che se da bambino permette di sopravvivere senza demonizzare i genitori, da adulto porta a minimizzare, a subire ancora e ancora. Se vogliamo davvero costruire un mondo migliore oggi, dobbiamo agire su chi quel mondo lo abiterà domani.

Questa è la storia che Stella ha voluto condividere con noi:

Mia madre ha attivamente e positivamente contribuito, durante tutta la sua vita, all’educazione dei ragazzi, ad alzare livello culturale e artistico della città. Mi ha insegnato che non si tace di fronte alle ingiustizie e non se ne parla solamente, si agisce. Mia madre è stata un’amica accogliente e generosa, talvolta brutalmente sincera, con una regola morale rigorosa e non conformista, attenta all’ecologia, alla difesa degli animali, della Natura tutta – e quasi valori me li ha trasmessi.

Mia madre è stata ferocemente violenta dietro le porte di casa, fin dalla mia più tenera infanzia. Mia madre era profondamente dissociata e non aveva nessuna consapevolezza di essere passata da essere lei stessa vittima, a essere carnefice.

Ora che non c’è più mi sento finalmente libera di parlarne non solo nella ristretta cerchia dei miei amici, pur sentendo ancora ritrosia nel parlarne apertamente, perché so che in tanti, troppi, non hanno mai capito, non hanno voluto capire e non capiranno. Io l’ho in realtà perdonata, altrimenti non avrei potuto prendermi cura di lei nei lunghi anni della sua malattia, con i limiti delle mie capacità, ma con costanza e affetto. Il perdono o la vendetta non c’entrano in verità col cammino che ho scelto di intraprendere: c’entrano quei bambini e quegli adulti che dalla mia storia potrebbero trarre giovamento, chissà, magari, addirittura, salvezza.

Mia madre è stata una donna meravigliosa e un genitore violento. Succede in moltissimi casi, perché la violenza genitoriale non è monopolio delle persone facilmente identificabili come cattive o manchevoli. Purtroppo oggi se ne parla troppo poco, e solo quando è legata a casi che finiscono nel modo peggiore e legati al degrado sociale, ma quando si prende la briga di scavare sotto la superficie, si scopre che ne è stato vittima un numero impressionante di persone insospettabili.

È difficile parlarne anche per l’accoglienza che si riceve quando lo si fa: “non esagerare”, “non essere melodrammatica”, “un paio di schiaffi li abbiamo presi tutti”, “ma ti sembra il caso di parlare così di tua madre che ha fatto solo del suo meglio”, “non ci credo”, “non fare la vittima”, “cresci e matura”. Ma il crescere e maturare è legato anche al raccontare, a non sentire vergogna, al riuscire ad andare oltre ciò che ti è successo, a non farti toccare da ciò che dicono le persone alle quali lo racconti.

Mi faccio meno problemi oggi a dire che no, non sono stati solo un paio di ceffoni e che quando tua madre ti prende per i capelli e ti sbatte la testa sul pavimento, per poi tirarti su sempre tirandoti per i capelli, quando ti prende a calci nello stomaco, quando ti strozza, non c’è giustificazione che tenga. Arriva la comprensione, quella sì, perché lei stessa ha subito le stesse violenze, ma proprio perché non è stata aiutata lei e perché io l’aiuto me lo sono dovuta andare a cercare attraverso i decenni, penso sia importante parlarne e scoprire uno scomodo vaso di Pandora.

Mi piacerebbe vedere un movimento #metoo anche per rivoluzionare la percezione della violenza genitoriale. Le storie sono milioni, inattese, simili e diverse, ma il silenzio e l’incomprensione le accomuna tutte. Io non avevo lividi visibili sul corpo, i miei erano sotto i capelli, sotto i vestiti, non ho mai dovuto mentire per giustificare questo o quello, se non a me stessa.

La violenza di mia madre si scatenava quando stava male, per le mille ragioni diverse che destabilizzano le persone – solo che le persone violente sfogano la propria frustrazione, impotenza e inadeguatezza sugli altri. Io le prendevo di brutto solo una volta l’anno, per i motivi più disparati: bastava aver contato male in soldi delle mancette dei parenti che tenevo nel cassetto, o un ritardo di un quarto d’ora nel rientro da scuola. E allora si scatenava la furia, in un inarrestabile crescendo che passava rapidamente dagli schiaffi agli spintoni, alla mia testa che veniva sbattuta su qualche superficie dura, dalle piastrelle alla vasca da bagno di smalto.

Da piccola ho sofferto anche dello spasmo di sanglot, uno svenimento con sospensione della respirazione, una sorta di convulsione immobile. Sono stata portata da neurologi e ho preso barbiturici per anni. Da grande grazie ai miei terapeuti ho scoperto che oggi questo disturbo si cura con gli abbracci, non con la medicalizzazione. Il mio era un modo in realtà di fermare l’attacco, come le prede che si fingono morte davanti al predatore.

Solo verso i 17 anni ho preso coscienza di essere ormai da tempo in grado di difendermi: se fisicamente lo ero da un po’, psicologicamente non avevo mai preso in considerazione di potermi imporre a mia madre. Un giorno, vedendo la sberla arrivare, le ho preso i polsi, l’ho guardata negli occhi e le ho detto: “Tu a me le mani addosso non le metti più”.

A 19 anni sono uscita di casa, ma non è finita lì la mia emancipazione, è solo iniziata. Ci sono voluti decenni per liberarmi veramente, per imparare a non accettare mai l’abuso, a non usare l’inerzia come difesa. Sartre diceva che noi siamo ciò che facciamo di ciò che gli altri hanno fatto di noi. La nostra identità sta lì. Io sono fortunata, sono qualcuno che tende alla felicità, la cerca e ha imparato a costruirla, passo dopo passo. Non tutti sono altrettanto fortunati, perché anche chi non è forte viene abusato, e spesso finisce per proteggere il carnefice, invece di salvare se stesso, perché quella salvezza è lunga, faticosa, dolorosa e ha un costo. Io l’ho pagato e lo pago volentieri, e la ricompensa è immensa. Sono riuscita a rompere il ciclo della violenza nella mia famiglia, e il rapporto che ho con le mie figlie vale qualsiasi prezzo.

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