Con il lavoro che facciamo dovremmo ormai essere abituati agli insulti (e lo siamo) ma più che conforto questa desensibilizzazione dovrebbe suscitare tristezza.

Ecco perché quasi mi rincuoro nell’essermi trovato sorpreso per un messaggio privato ricevuto al nostro account Instagram, in cui un ragazzino ci ha scritto, con tanto di maiuscolo:

“PERCHÉ AVETE CANCELLATO IL MIO COMMENTO, STATE CANCELLANDO I COMMENTI CONTRO DI VOI, NON VOLETE DIALOGARE, NAZIFEMMINISTE MORITE”

Per amor di cronaca il commento in questione è questo:

Il perché abbiamo ritenuto di cancellare questo commento penso sia palese, rispettiamo la sacralità della libertà di espressione, sempre che questa non si trasformi nella libertà di insulto.

Non è stato l’unico commento che siamo stati costretti a cancellare sotto questo nostro post, probabilmente confluito in qualche gruppo di hater misogini.

A stupirmi del messaggio non è stato però il tono volgare e nemmeno l’incoerenza di accusarci di evitare il dialogo a fronte di un commento che non lasciava spazio a nessun confronto. A stupirmi veramente è stata l’età dell’autore, un bambino, forse 9-10-11 anni, a giudicare dal profilo, pubblico.

Un’età in cui, sinceramente, ancora vi è il dubbio se definire qualcuno “ragazzo” o “bambino”, un’età in cui le parolacce si usano e si usano a caso, in cui difficilmente si può comprendere davvero termini come “nazifemministe”. Un’età in cui dovrebbe risultare alienante minacciare di morte qualcuno.

La reazione più quotata (e scommetto che nei commenti a questo articolo sarà nominata spesso) è quella che, in virtù di una lode dei tempi che furono, si lancerà da un lato in un’accusa globale alle nuove generazioni e dall’altro in un’apologia nostalgica dei bei tempi passati, quando l’educazione ci veniva insegnata a forza di ceffoni.

Queste diatribe generazionali potrebbero durare all’infinito, ma sono inutili: innanzitutto è proprio dai più giovani che arriva il maggior interesse per le lotte inclusive e i diritti umani, perciò generalizzare è sbagliato; inoltre il rischio di essere zittiti con un laconico “ok boomer” sarebbe altissimo.

Il punto infatti non è rivolgere il nostro sgomento nei confronti di questo ragazzino, che in quanto tale agisce ancora per imitazione. Fa ciò che gli adulti attorno a sé fanno.

Che gli adulti in questione siano i genitori, i compagni più grandi di scuola o gli amici dei social, poco importa. A 9, 10 o 11 anni sei lo specchio di ciò che il mondo attorno ti riversa addosso.

Uno specchio reso perfetto dal fatto che non vi sono ancora incrinature, aloni o crepe che in un adulto intervengono a filtrare la realtà, per restituire una risposta influenzata dalle nostre esperienze, dai nostri insegnamenti, dalla nostra etica. Tutte cose che iniziano a depositarsi nella coscienza proprio quando siamo bambini.

Non è un caso se infatti oltre all’insulto tr**e, le altre offese abbiano riguardato l’essere grasse e pelose (che offese non sono). Una compensazione infantile per colmare un gap misogino che, data l’età, è ancora giustamente vuoto.

Ma cosa può succedere in futuro se nella testa di un undicenne viene man mano installata l’idea che sia giusto chiamare una donna tr**a e minacciarla di morte solo perché ha un’idea diversa dalla tua?

Come si comporterà questo bambino con le compagne di scuola? Come potrà evolvere il suo rapporto con le altre persone se, già da questa età, le influenze più ripugnanti della società sono riuscite a spingerlo così in basso nel comportamento umano?

Magari gli adulti che accanto a lui hanno commentato con frasi altrettanto offensive, sono ancora convinti dell’idea che realtà e mondo virtuale siano due mondi separati, una convinzione errata che però forse li porta a non adottare atteggiamenti così sbagliati anche fuori dai social.

La stessa “premura” l’avrà pure un bambino più giovane di Facebook stesso? Un bambino per cui i social sono la realtà?

Nel romanzo distopico di Orwell, 1984, le spie preferite dal regime autoritario del Grande Fratello sono i bambini, coloro che erano nati all’interno del regime e perciò privi di una memoria che potesse mostrare loro un altro modo di vivere.

Forse il paragone è azzardato, ma non posso fare a meno di chiedermi che tipo di adulti possono diventare dei bambini che agiscono in questo modo. Occorre prevenire e non limitarsi a indignarsi quando poi leggiamo di stupri, femminicidi o omicidi, chiedendoci come sia stato possibile.

È così che è stato possibile: parte tutto dall’insegnare a un bambino che va bene maltrattare le donne, che solo questo sia il modo giusto per essere un uomo.

Dobbiamo chiederci cosa può spezzare l’involuzione morale a cui questo bambino sembra essere destinato. La soluzione sono dei ceffoni? Ovvero violenza usata per educare alla non violenza? Oppure si tratta di una cosa molto più complicata di un paio di schiaffi? Una cosa che compete a noi adulti, tutti, nessuno escluso. Che compete i misogini che traggono godimento nel vomitare odio sulle tastiere e che compete anche chi sta a guardare senza dire nulla.

Quindi, in realtà, non ho molto da dire a te bambino che chiami le donne tr**e ( in fondo mi ascolteresti mai?) ho però una supplica da fare a tutti noi adulti che ti circondiamo: non abbandoniamolo, trasformiamo lo slogan, spesso usato impropriamente, “qualcuno pensi ai bambini” in qualcosa di sensato: forniamo loro un altro mondo da imitare.

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