"Boys will be boys", quel "so' ragazzi" che giustifica le peggio cose dei maschi

Boys will be boys, ovvero tutto quello che a un uomo è concesso e perdonato in quanto tale, molestie comprese. Perché la scusa del "so' ragazzi" e del "si sa che gli uomini son tutti mascalzoni" è sempre la più valida per giustificare certi comportamenti.

“Sono ragazzi”. Quante volte avremo sentito dire questa frase? Il problema, però, subentra non quando la si usa per far rientrare nei ranghi le innocue scaramucce tra giovanissimi, ma per minimizzare certi atteggiamenti maschili che, da gravemente offensivi, vengono inspiegabilmente normalizzati e giustificati proprio seguendo la “logica” del “sono cose da maschi”.

Boys will be boys, direbbero gli inglesi, come a dire che, se uno nasce uomo, è praticamente impossibile non chiedergli di agire in un certo modo o di comportarsi senza dare sfoggio estremo della propria virilità, perché certe cose sono insite nella natura maschile.

Insomma è la classica storia delle pulsioni, dell’istinto, della carne che è debole; che, incredibilmente, non si offre mai come scusa alle donne, invece.

Ne ha parlato abbondantemente, e bene, in alcune storie pubblicate sul suo account Instagram  Giulia Valentina, influencer, che in passato ha collaborato con Grazia e che conduce una rubrica settimanale, TGiG (Thank God it’s Giulia) sia sul suo canale YouTube (dove porta anche le sue pillole di Magic English, per insegnare lo slang dei giovani d’Oltremanica) che su Dplay; lo ha fatto traendo lo spunto dalla storia della modella Andrada Marina, che, sulle pagine di un settimanale prima, e nel salotto televisivo serale di Barbara D’Urso poi, ha spiegato di essersi sentita molestata da Antonio Zequila (attuale concorrente del Grande Fratello vip) durante un concorso di bellezza, diversi anni fa.

Tra un giorno e l’altro ci siam trovati nei corridoi dell’hotel e parlando del più e del meno lui ha iniziato a complimentarsi con me per l’esibizione del giorno prima – ha spiegato Andrada, aggiungendo come lui, una sera, l’abbia invitata a entrare nel suo camerino – Io mi sono fermata, non volevo entrare, però lui ha insistito dicendo che voleva prendere solo una cosa, non ricordo cosa. Siamo entrati, ha preso il telefono e ha iniziato a farmi vedere delle conversazioni di una persona che lui diceva di conoscere molto bene e grazie alla quale mi avrebbe potuto far entrare in un programma televisivo – e poi, per concludere – mi ha baciata senza il mio permesso.

Al racconto della ragazza, le opinioni degli ospiti in studio si sono divise, e la stessa D’Urso ha prima banalizzato la situazione chiosando con un “Gli uomini, si sa, son tutti mascalzoni”, e poi ha tenuto a fare il punto su cosa significhi molestia:

Le molestie sono molestie. Il fatto che un uomo provi a baciarti, al limite fa anche sorridere, ‘Meno male – dici – almeno gli piaccio!’. Basta dire di no.

Non vogliamo soffermarci sulla storia di Andrada in sé, ovviamente, e men che meno mettere in piedi tribunali mediatici, soprattutto alla luce del fatto che la controparte coinvolta non sia stata informata di questa testimonianza e, quindi, non possa replicare. Ma, anche dopo aver ascoltato le riflessioni di Giulia nelle sue storie, questo episodio televisivo ci offre lo spunto per ragionare su quella che, evidentemente, è la prassi diffusissima, negli uomini così come nelle donne, di ridurre certi comportamenti maschili al mero rango di marachelle, o di considerarli tutt’al più come la naturale conseguenza del fatto stesso di essere nato uomo.

Partiamo da un primo assunto fondamentale: il concetto stesso di molestia è piuttosto soggettivo, ma in generale, da vocabolario è definibile come qualunque “Pungente sensazione di disagio, tale da alterare le normali caratteristiche di uno stato, di un’azione o di un comportamento, provocata da fattori o agenti interni o esterni, oggettivamente ostili o sentiti come tali”.

Dire “esagerata” a una persona evidentemente messa in soggezione da una situazione che per lei è fonte di fastidio e di inadeguatezza, e voler per forza assoggettare le percezioni individuali, o il confine del nostro stesso disagio a criteri universalmente validi, non fa altro che spingere chi subisce a rimanere nella propria passività e a non parlare, perché convinta di essersi sentita a disagio a torto.

Lo stesso vale anche per un bacio, strappato con l’inganno, approfittando di un eccesso di ingenuità, forse, ma che non può essere liquidato con un “fossi brutta non ti guarderebbe nessuno”.

Ne abbiamo parlato anche in questo articolo sul corteggiamento, precisando bene la distinzione tra l’atto di corteggiare e lo spingersi oltre il limite consentito dall’accettazione dell’altra persona.

Ma veniamo alla questione principale: quel “sono ragazzi” o “boys will be boys” con cui si cerca sempre di far sentire un po’ stupide le donne che si sentono minacciate, o sopraffatte, da avances troppo spinte o apprezzamenti, e chiaramente colpevoli se accade loro qualcosa di peggio.

Ha ragione, Giulia Valentina, quando dice che entrare nella stanza d’albergo del proprio boss per discutere di lavoro non equivale a entrare “in una gabbia di leoni”, dove ti aspetti di essere aggredito e sbranato.

Quindi perché, se una donna accetta, per gentilezza, fiducia o ingenuità, un invito in un determinato contesto, e si ritrova a ricevere avances sgradite, viene puntualmente colpevolizzata per essersela andata a cercare, o considerata, se le va bene, una ”poco di buono arrivista”, dando per scontato che un uomo, in quella situazione, agisca per forza così?

È tutta colpa della distorta percezione del potere, in realtà: visto sempre e comunque come prerogativa maschile, e dunque esercitabile senza condanne. In questa situazione di disequilibrio non è l’uomo a doversi rendere responsabile delle proprie azioni, e a pagare, per eventuali deviazioni, ma la donna. Che deve prevenire il rischio, stare alla larga dal pericolo, badare a se stessa evitandosi ogni possibile circostanza borderline.

Ne abbiamo, purtroppo, esempi ogni volta che, di fronte a uno stupro, nascono giurie popolari pronte a valutare costantemente l’abbigliamento di una donna, il suo tasso alcolico, la lunghezza della sua gonna o l’altezza dei suoi tacchi, e mai, o raramente, l’abuso di potere esercitato dall’uomo.

Ma anche nei casi meno gravi, negli episodi di catcalling, in cui l’apprezzamento urlato per strada, il fischio, la parola osé dello sconosciuto diventano il manifesto dell’uomo virile che di fronte a una bella donna non resiste.

Il fatto è e resta uno solo: io, donna, ho la libertà e il diritto di accettare i complimenti da chi mi pare, non di pensare che se fossi brutta nessuno si degnerebbe di fischiarmi mentre passeggio per strada. Di rifiutare le avances e di arrabbiarmi, se lui insiste, non di pensare che sia tutto normale perché “è uomo, che ci vuoi fare”.

E devo avere la libertà di entrare nella stanza di un capo, un collega, o, in generale, di un uomo, senza sentire su di me il peso di una doppia minaccia: quello di essere molestata, da lui, e del giudizio della gente, fuori.

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