Il caso Olivo è probabilmente una delle più interessanti storie del femminicidio nel tempo.

Interessante perché fu il primo caso giudiziario del genere in Italia. Quello che sappiamo sul caso Olivo lo abbiamo dalla sua testimonianza diretta in un libro che si intitola Ira fatale – Autobiografia di un uxoricida, che la Bollati Boringhieri ha dato alle stampe nel 1988, ma anche da un fumetto degli anni ’60 con la sceneggiatura di Dino Buzzati e dalle cronache dell’epoca – che furono particolarmente inclementi con l’uxoricida e con il sistema giudiziario che non lo punì come, si riteneva, avrebbe dovuto.

Sì, perché il caso Olivo si chiuse con una condanna a 12 giorni di carcere e una multa di 135 lire per l’esecutore del delitto: il verdetto non fu omicidio (che oggi chiameremmo femminicidio), bensì la sentenza si concentrò sullo smembramento e occultamento di cadavere – secondo la corte infatti non c’era certezza che fosse stato Olivo a commettere l’omicidio. Che cosa accadde esattamente? Ne parlano in modo differente, con piccoli particolari diversi, diverse testate italiane come il Corriere della Sera, Repubblica e il Giornale.

Alberto Olivo nacque a Udine nel 1856. Prese il diploma in un istituto tecnico – per l’epoca era un traguardo importante – diventando così un ragioniere alla Richard Ginori di Milano, dove si trasferì nel 1889. L’uomo si dilettava di poesia e di matematica, anche se con risultati non particolarmente brillanti (tranne che nella sua versione della storia). Ecco, questo è un passaggio importante: il caso Olivo è filtrato dalla sua visione, dal suo punto di vista nella storia, mentre il punto di vista della donna e dei suoi cari non ci è pervenuto.

Il nome della vittima di Olivo si chiamava Ernestina Beccaro, ed era una giovane di origine biellese poi diventata moglie dell’uomo. I dettagli, dicevamo, su questa parte della storia sono un po’ diversi in base a chi la racconta: Ernestina quando incontrò il futuro marito non aveva neppure vent’anni – mentre Olivo ne aveva quasi quaranta – ed era cameriera in una trattoria.

Secondo alcuni, Ernestina stava per iniziare il mestiere più antico del mondo e fu il suo protettore a pagarle il corredo da sposa, come di rito in quegli anni. Secondo altri, l’uomo che le pagò il corredo altri non era che un amante, sposato, che decise di farsi da parte in favore di Olivo.

Caso Olivo
Fonte: Vanilla Magazine

Alberto Olivo, invaghito dalla bellezza di Ernestina – che in parte gli ricordava la madre morta –  al tempo stesso era fermamente convinto che la donna dovesse essere sottomessa all’uomo e uno dei motivi per cui decise di sposarla nel 1896 fu per risparmiare, per avere una serva gratis (viene infatti descritto spesso in varie cronache come un uomo molto avaro).

Ernestina non era però dello stesso avviso, anzi, si era sposata per avere una possibilità economica al fine di studiare. Trovò così un’istitutrice, dalla quale però a un certo punto fu costretta a ritirarsi: la paga di 15 lire al mese al marito sembrava troppo alta.

Così Ernestina ripiegò su un vicino di casa, un medico sposato, di cui divenne l’amante e che accettò di essere il suo pigmalione. Alberto Olivo sapeva della tresca, ma la ignorò – anche perché in quel periodo le liti furiose tra moglie e marito si erano attenuate – sebbene lui iniziava a sviluppare dei pensieri paranoici: secondo Olivo, la moglie stava tentando di avvelenarlo facendogli bere il proprio sangue mestruale o ricorrendo a sostanze chimiche datele dal medico-amante. Nulla però accadde e in seguito il medico si trasferì altrove, mentre i litigi tra Ernestina e Alberto riprendevano con la solita virulenza di prima.

L’escalation di violenza verso Ernestina raggiunse il suo culmine il 17 maggio 1903, quando in seguito a una risposta piccate della donna, che accusava Olivo di essere avaro e rompiscatole, facendo anche un riferimento alla «vacca di sua madre», si scatenò la furia dell’uomo . Fu allora che Olivo colpì la moglie con un coltello, uccidendola. Trascorse poi alcuni giorni in casa con il cadavere in putrefazione, iniziando a smembrarlo solo il 21 maggio e buttando le parti più piccole nel gabinetto. Dopo di che, il 23 maggio si recò a Genova, gettando i resti in mare, ignorando che sarebbe tornato ben presto a galla.

Cosa che in effetti accadde il 25 maggio, destando una grande eco sui giornali di tutta Italia. Così, i vicini di casa milanesi della coppia, non vedendo la donna da alcuni giorni, allertarono le forze dell’ordine, che immediatamente contattarono Alberto. L’uxoricida crollò immediatamente e ne seguì un processo che, attraverso la sensibilità contemporanea, definiremmo una grandissima farsa. Vi partecipò perfino il fisionomista Cesare Lomboso, che sembrò oscillare tra l’ammirazione verso Olivo e la convinzione che questi sarebbe dovuto essere rinchiuso in un manicomio criminale a vita.

Quest’eventualità però non accadde. Olivo, al processo, fu esaltato dalle donne presenti – un po’ come accade ancora oggi ai cosiddetti assassini carismatici – e la giuria popolare ritenne che fosse impossibile stabilire se l’uomo avesse ucciso Ernestina. Così Alberto venne condannato solo per smembramento e occultamento di cadavere: il giudizio fu però viziato da un pregiudizio, e cioè che Ernestina se la fosse andata a cercare, che fosse lei, la vittima, la colpevole del proprio femminicidio – cosa peraltro sostenuta dallo stesso Olivo in tribunale.

Dopo 12 giorni di carcere e una multa, Olivo tornò quindi in libertà. Libero di poter scrivere – e infatti scrisse il libro succitato, cosa che avrebbero fatto anche altri assassini della storia come Angelo Izzo e Charles Manson – e di poter trovare un’altra moglie. Alberto Olivo si risposò quindi e venne dimenticato dalla cronaca e dalla storia, fino alla sua morte nel 1942. Finché Buzzati non ne ha fatto un fumetto e la Bollati Boringhieri ne ha pubblicato l’autobiografia. Finché non si è deciso di non dimenticare Ernestina.

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