Aggiornamento 29 aprile 2021

Questa è la fine di un tentativo di fare del nuovo male a Martina.
Ci hanno provato ma non ci sono riusciti. Il mio primo pensiero è andato a lei, ai suoi valori, a lei che non ha fatto niente e ha perso la vita

Bruno Rossi è il papà di Martina, morta a 20 anni il 3 agosto 2011, durante una vacanza a Palma di Majorca.
Dopo un iter giudiziario complesso, che ha fatto strazio in più casi del dolore dei genitori di Martina e della ragazza stessa, la corte di appello di Firenze del processo bis ha condannato a 3 anni ciascuno Alessandro Albertoni e Luca Vanneschi per tentata violenza sessuale di gruppo.

A gennaio 2021 la Cassazione aveva annullato le assoluzioni dei due uomini stabilita in Appello nel primo processo, rinviando gli imputati al processo bis di secondo grado che ne ha sancito la colpevolezza rispetto all’unico capo di accusa rimasto aperto.
Albertoni e Vanneschi, infatti, non sono più giudicabili rispetto al reato di morte in conseguenza di altro reato, andato in prescrizione (come da ricostruzione del processo a seguire).

Per la Corte in appello sarebbe stato commesso un “macroscopico errore visivo” nell’individuazione del punto di caduta, che avrebbe fatto optare per l’opzione del suicidio, qui nuovamente esclusa a favore della versione dell’accusa: “la ragazza quando cadde stava fuggendo da un tentativo di stupro”.

Stefano Buricchi, avvocato difensore di Vanneschi, ha dichiarato che con il suo cliente impugnerà la sentenza in Cassazione.

Aggiornamento 22 gennaio 2021
Martina Rossi, la Cassazione annulla le assoluzioni

Era indispensabile questo annullamento per fare chiarezza. Adesso si lavora per avere il minimo di giustizia. Martina non me la ridarà nessuno, ma almeno si saprà cosa è successo quella notte

sono le parole di Bruno Rossi, papà di Martina, morta il 3 agosto 2011 cadendo dal balcone di un hotel di Palma di Majorca, ora che la Cassazione ha annullato le assoluzioni di Luca Vanneschi e Alessandro Albertoni, che tornano sotto processo in appello bis per la morte della ragazza.

A giugno 2020, la Corte d’Appello aveva assolto di due ragazzi, ribaltando la versione emersa in primo grado.
Di seguito la cronologia della vicenda.

Aggiornamento 9 giugno 2020
Martina Rossi morì per fuggire allo stupro? Per la giudice “il fatto non sussiste”

“Il fatto non sussiste”: la Corte d’Appello di Firenze, presieduta dalla giudice Angela Annese, ribalta così la sentenza di primo grado del Tribunale di Arezzo, assolvendo i due ragazzi imputati per la morte di Martina Rossi, la ragazza morta a 20 anni il 3 agosto 2011, precipitando dal terrazzo di una camera d’albergo a Palma di Maiorca, dov’era in vacanza.

Martina non c’è più e adesso non c’è più neppure la giustizia.
La giustizia italiana si è interrotta sul lavoro fatto in precedenza.
Cosa farò domani? Terrò stretta mia moglie.
Sono arrabbiato, l’assoluzione perché il fatto non sussiste. Vuol dire infangare l’onore di Martina, vuol dire sostenere che è volata giù da sola.

Ha commentato il padre di Martina, Bruno Rossi, presente alla lettura della sentenza. Secondo la difesa, infatti, la ragazza di sarebbe gettata dal balcone per depressione e per effetto dell’hascisc.

Diversa la versione emersa in primo grado, in cui i due imputati, Luca Vanneschi e Alessandro Albertoni, erano stati condannati a 6 anni per tentata violenza sessuale e per aver causato la morte della giovane in conseguenza di un altro delitto: se non che quest’ultimo reato era poi entrato in prescrizione.

Contestualmente, a quell’epoca, era stato scritto il testo che segue:

Articolo originale, 29 novembre 2019
L’ultimo affronto a Martina Rossi, morta per fuggire allo stupro

Colpevoli. Questo era stato scritto nel processo di primo grado ad Arezzo: colpevoli di morte come conseguenza di altro reato e tentata violenza di gruppo e per questo condannati a sei anni di carcere ciascuno.

Martina Rossi, studentessa ventenne di Genova, aveva detto il pm, quando morì cadendo da un balcone dell’hotel di Palma di Maiorca, “fuggiva da due ragazzi aretini che la volevano violentare e tentò un ultimo e disperato tentativo di mettersi in salvo raggiungendo un altro terrazzo”.

Invece in appello a Firenze i due imputati sono stati di fatto “graziati”, non perché giudicati innocenti, ma perché l’accusa più grave è andata estinta per prescrizione: “Morte come conseguenza di altro reato estinto da febbraio, essendo un’aggravante dell’accusa principale, tentata violenza sessuale di gruppo”.

Resta a questo punto in piedi unicamente l’accusa di tentata violenza di gruppo, per la quale la corte d’appello di Firenze ha rinviato il processo al 20 settembre 2020, in quanto ha ritenuto non ci fosse più l’urgenza di svolgere il processo per evitare l’estinzione, sopraggiunta, di uno dei due reati contestati e, quindi, ha dato la precedenza ad altri processi con detenuti.

Cade così la possibilità per i suoi genitori di avere giustizia per la morte di Martina, dopo otto anni da quel 3 agosto 2011, e questo nonostante fosse già stata confermata una verità processuale che individuava e condannava i presunti responsabili nelle persone di Luca Vanneschi e Alessandro Albertoni.

Una beffa, in cui a pagare il prezzo sono solo Martina, con la vita, e i suoi genitori che, come ben illustrato nell’intervista realizzata da Chi l’ha visto?, da subito non hanno creduto alla versione del suicidio e della depressione della ragazza, su cui si basa tutta la linea difensiva, non fosse che per questi tre punti:

  1. Le intercettazioni ambientali dei due ragazzi che, in attesa di interrogatorio, parlano di violenza sessuale tra di loro, senza che alcuna accusa a proposito gli fosse ancora stata mossa (in questo video);
  2. Le ecchimosi, i graffi e i segni sul corpo di Martina, fotografati dalla mamma delle ragazza all’arrivo in Spagna, e compatibili con un’aggressione e non con la caduta dal balcone;
  3. Il fatto che Martina quando cadde dal balcone non era nella sua stanza, ma in quella dei due ragazzi conosciuti in vacanza, ed era in mutande, senza i pantaloncini che indossava e che non sono più stati ritrovati.

Difficile credere che una ventenne vada in vacanza per suicidarsi.
Ancora più difficile credere che lo faccia dalla stanza di due ragazzi conosciuti da poco.
Per giunta, in mutande e senza dei pantaloni fantasma spariti nel nulla.

E poi, come nel caso di Stefano Cucchi, c’è un corpo inerme e senza vita, ma che grida.
Di fatto ieri la legge italiana non ha negato le “parole” del cadavere di questa giovane donna, né la battaglia che questi due genitori hanno condotto con rabbia, disperazione e fiducia in questi anni.

No. Di fatto la legge italiana ieri non ha negato il reato, ma ha detto che è solo passato del tempo e che quindi non vale più.  Come a dire: “Ci dispiace Martina che sei morta ma tempo scaduto, accusa estinta per prescrizione”. 

Che è poi come mettere un orologio a tempo all’orrore, sminuire la gravità di un fatto e, con esso, di una vita solo perché “è passata troppa acqua sotto i ponti”; un “Pazienza, dai, sarà per la prossima volta! Magari per la prossima Martina!”.
Senza neppure l’aggiunta delle scuse.

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