Nel nostro Paese, al 2014, ci sono 55 sezioni di carceri femminili, e le detenute, in generale, rappresentano il 4% di tutta la popolazione che riempie le prigioni italiane da Nord a Sud.

Ricostruire la storia delle carceri femminili non è cosa semplice, dato che storici e criminologi non hanno mai mostrato un particolare interesse per l’argomento; in generale, però, è con il neonato movimento delle donne nel XIX secolo che, in Inghilterra, si chiese l’istituzione di carceri femminili gestite da altre donne, così da tutelare le detenute dalle angherie e dalle violenze maschili.

Prima donne e minori venivano infatti spesso lasciati alla mercé di guardie e altri detenuti, anche se comunque la gran parte di loro, come per quanto riguardava i malati mentali, venivano internati in conventi. Le donne erano imprigionate per reati come furti, infanticidi e omicidi del padre o del marito ma anche per infedeltà, abbandono dei figli, per prostituzione o in quanto mendicanti.

In Italia, l’ingresso in carcere delle detenute politiche dalla fine degli anni ’60 in poi ha segnato una svolta nella qualità in termini di discussione sul carcere, ma non sulla detenzione femminile in particolare, nonostante ci siano stati diversi cambiamenti nel decennio ’70-’80.

Fino al 1990, ad esempio, nonostante la riforma carceraria del ’75, le superiori delle agenti penitenziarie erano le suore cattoliche, che si sono occupate della detenzione femminile per molti secoli. Nonostante questo aspetto, la suddetta riforma ha avvicinato moltissimo il mondo carcerario maschile a quello femminile, soprattutto in termini di laicizzazione del secondo e di impronta sociologica del primo (da quel momento si iniziò a preoccuparsi di più della rigenerazione morale dei detenuti), ma durante le svariate rivolte che precedettero tale riforma le detenute, poche e sparse nel Paese, non presero parte.

La sola rivolta annotata in quegli anni coinvolse la sezione femminile di San Vittore a Milano, nel 1976, e a tale sommossa fece seguito un documento di richieste di cambiamento di vita interna che le detenute comuni, insieme alle detenute politiche, inviarono ai parlamentari dei partiti socialista e comunista italiani dell’epoca.

La risposta alle loro domande arrivò con un’indagine parlamentare a fine anni ’80: si andarono a verificare le condizioni in cui le donne vivevano nelle carceri italiane, appurando che in effetti le detenute non accedessero facilmente a tutte le agevolazioni previste dalla riforma del ’75 e dalla legge Gozzini dell’86. Oltre al poco spazio e per le detenute, non si svolgevano attività ricreative e culturali, né attività formative o risocializzanti per la carenza di operatori/trici, volontari/e, e anche di fondi pubblici e di progetti.

Carceri femminili in Italia

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Fonte: web

La prima curiosità sulle carceri nel nostro Paese è che, dagli anni che vanno dalla fine della II guerra mondiale al 2000, la percentuale di donne detenute è rimasta immutata, rappresentando il 5% della totalità della popolazione detenuta. Queste sono sparse nelle sezioni femminili delle carceri maschili ed in 5 carceri femminili localizzate tutte, eccetto una, nella zona Centro-Sud dell’Italia.Gli istituti esclusivamente femminili sono infatti Empoli, Pozzuoli, Roma Rebibbia, Trani, Venezia Giudecca, mentre ci sono 52 sezioni femminili ospitate in carceri maschili.

Vediamo ora alcuni dati interessanti:

  • Il 33% delle donne detenute in Italia lo sono per reati legati alle sostanze stupefacenti, sono molto giovani. Quelle coinvolte nel traffico di stupefacenti sono stranieri, le tossicodipendenti in maggioranza italiane.
  • Il 22% è in carcere per reati contro il patrimonio: sono in generale donne relativamente giovani che hanno cercato di raggiungere un’autonomia economica lontano dalla famiglia o hanno dovuto farsi carico di figli piccoli senza un compagno e senza il sostegno dei servizi sociali o dei genitori.
  • Il 12% ha commesso reati contro le persone, percentuale decisamente più bassa rispetto a quella degli uomini rinchiusi per gli stessi reati.
  • 33 donne in tutto sono in carcere per reati di criminalità organizzata.
  • Il 50% delle detenute ha figli con cui hanno interrotto i rapporti, ma molte, in particolare rom, hanno bambini sotto i 3 anni che vivono con loro in carcere.

Fra i carceri femminili italiani più famosi figura quello di Voghera, per la cui chiusura si sono battuti diversi movimenti, anche femministi. La struttura era nata come carcere speciale esclusivamente femminile, e al suo interno furono sperimentate particolari tecniche di deprivazione sensoriale; inoltre, dentro al carcere non era consentito nessun tipo di attività, le detenute erano costrette a restare 24 ore chiuse in cella, in isolamento, o al massimo godevano di una sola ora d’aria, non potevano spedire o ricevere lettere e pacchi, non potevano ricevere libri o riviste, che si potevano solo acquistare, le luci interne erano accese giorno e notte e i muri insonorizzati, i locali docce provvisti di telecamere.

Solo con la manifestazione nazionale a Voghera, nel luglio 1983, furono aboliti solo alcuni divieti, e nel carcere venne istituita anche una sezione maschile, in cui i detenuti sperimentarono quanto finora attuato con le prigioniere. Tuttavia, nel 2019 si è tornato a parlare delle condizioni estremamente restrittive con cui i detenuti sono tenuti in carcere.

Nel 2013 è stato invece chiuso l‘Opg (ospedale psichiatrico giudiziario) di Castiglione delle Stiviere, unico presidio di questo tipo in Italia, un istituto senza sbarre, senza polizia penitenziaria e con il solo reparto femminile, che ospitava donne ree di aver ucciso, spesso inconsapevolmente, i propri cari, soprattutto figli. La struttura si distingueva per l’approccio terapeutico adottato e per essere il solo collegato all’azienda ospedaliera mantovana, con cui il Ministero della Giustizia aveva stipulato un accordo.

Le condizioni nelle carceri femminili

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Fonte: web

L’Associazione Antigone, che si occupa della tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e penitenziario, ha evidenziato alcune criticità nelle strutture di Venezia, dove vi è penuria di personale nell’area educativa, Pozzuoli, ove il sovraffollamento è un grave problema, e Rebibbia femminile, che lamenta una mancanza di mediatori culturali per le straniere, e soprattutto per quelle con problemi psichiatrici.

Molti problemi possono poi essere riscontrati a livello di igiene, soprattutto durante il periodo delle mestruazioni, dato che molte carceri non offrono neppure il bidet alle detenute e, spesso, nemmeno la possibilità di una doccia calda. A proposito del ciclo mestruale, peraltro, va detto che l’amenorrea, ossia l’assenza del mestruo, è uno dei primi sintomi che la maggior parte delle donne detenute subisce nel primo periodo di detenzione.

Chiaramente uno dei problemi maggiori della detenzione femminile riguarda le detenute con figli al seguito. Nel 2014, secondo quanto riportato proprio in un rapporto di Antigone, negli istituti penitenziari italiani c’erano in tutto 58 madri con 70 bambini, equamente distribuite tra italiane (27 con 34 figli al seguito) e straniere (31 con 36 figli). Nel 2018, invece, secondo i dati messi a disposizione dal Ministero della Giustizia al 31 agosto, dietro le sbarre c’erano 52 madri con al seguito 62 minori, poi diventati 60 in seguito alla tragedia di Rebibbia, quando una detenuta di origine tedesca di 31 anni, in carcere per traffico di sostanze stupefacenti, ha scaraventato i suoi due figli dalla tromba delle scale della sezione nido.

Con la legge n. 62 del 21 aprile 2011 è stata prevista la creazione di istituti a custodia attenuata (Icam) in cui collocare le detenute madri con i figli. Lo scopo è di ricreare, almeno nelle intenzioni, l’ambiente domestico, o comunque qualcosa di più simile a un asilo che a un carcere, così da evitare ai minori i traumi della detenzione.

In Italia, oltra all’Icam di Milano, che ha svolto il ruolo di apripista nel 2007, sono attivi altri quattro, mentre in altre carceri femminili, come Rebibbia, ci sono solo degli asili nido all’interno delle sezioni femminili. Per riassumere meglio, la situazione al 2018 è questa:

  • Icam di Torino, “Lorusso e Cutugno” 7 donne e 10 bambini.
  • Icam di Milano “San Vittore”, 4 madri e 4 figli.
  • Icam di Venezia “Giudecca” 5 detenute e 6 minori.
  • Icam di Lauro (Campani), 10 madri per 12 figli.
  • Icam di Senorbì (Cagliari) dove non ci sono persone.

Per quanto riguarda le attività lavorative, al 30 giugno 2016 le detenuti che lavoravano erano 840, di cui 356 straniere. La gran parte di loro è impiegata in in servizi d’istituto, con mansioni come addette alle pulizie e aiuto cuoche (73,6% del totale delle lavoranti). 42 sono le detenute alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria addette alle lavorazioni, 22 ai servizi extra murari ex art. 21, 6 alla manutenzione ordinaria dei fabbricati. Il restante 26,4% non alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria si divide tra lavoranti in istituto per conto di imprese (90), in esterno ex art. 21 (63), semilibere per datori di lavoro esterni (17) e lavoranti in istituto per conto di imprese.

Capitolo accesso ai corsi di istruzione: nell’anno scolastico 2015-2016, 137 detenute erano iscritte a corsi CISL (ex alfabetizzazione), 265 iscritte alla primaria, 231 alla primaria di primo grado, 95 ad altri corsi. In 64 erano iscritte ai licei, anche se questa possibilità è presente solo in Campania e Lazio, in 51 agli istituti professionali e in 81 agli istituti tecnici.

Abusi e violenze nelle carceri femminili

carceri femminili
Fonte: web

Un problema diffuso nelle carceri a livello generale riguarda certamente il diniego della sessualità e l’astinenza forzata, che nei casi delle detenute donne diventa, se possibile, ancora più importante, perché acuito da una certa logica maschilista per cui la negazione sessuale sarebbe meno grave per loro rispetto a quella maschile.

Inutile poi sottolineare come l’immagine stereotipata della detenuta sia spesso quella della prostituta, cattiva madre, moglie e figlia, che è in carcere prima di tutto per essere rieducata affinché possa riappropriarsi del proprio ruolo in famiglia. Insomma, il sessismo abbonda anche tra le pareti delle carceri.

Va però detto che non sempre il sesso nelle carceri manca: purtroppo, infatti, stupri e molestie sessuali nei confronti delle detenute non sono una rarità, non solo in Italia ma in generale, a livello mondiale. Secondo questo documento, ad esempio, la metà delle detenute americane ha denunciato di essere stata sessualmente abusata durante l’incarcerazione, indipendentemente che il carcere fosse privato o pubblico.

Nel 2019, invece, una ricerca di Amnesty International ha fatto emergere casi di violenza sessuale verso donne e minori da parte di agenti di sicurezza e altri detenuti nelle strutture penitenziarie di alta sicurezza nello stato del Borno, in Nigeria.

Naturalmente la gran parte degli stupri viene effettuata dalle guardie, che sfruttano il ruolo ricoperto nelle gerarchie carcerarie, e questo nonostante le norme minime standard dell’ONU per il trattamento dei detenuti, adottate nel 1955, alla norma 8 e alla norma 53 stabiliscano che uomini e donne devono essere tenuti separati e che lo staff carcerario delle prigioni femminili non possa essere maschile.

Non possiamo inoltre dimenticare abusi di altro tipo, come quello raccontato in questo articolo, in cui una detenuta è stata fatta partorire in manette.

Anche questo è un genere di violenza che non dovrebbe essere accettabile.

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