Avevamo già capito. Quando è uscita la notizia della scomparsa di Elisa, di quel pranzo con lui, degli avvistamenti nelle ore successive di quell’uomo, senza di lei, sapevamo già cos’era successo.
Non sapevamo ancora come, dove. Ci mancavano i tempi, i modi e quei dettagli che rendono ogni storia collettiva unica, ma lo sapevamo.

Con una cara amica, madre di una vittima di femminicidio, ce lo eravamo scritte in WhatsApp.
Restava il beneficio del dubbio, dato più che altro da un’ostinata speranza di essere smentite nel nostro pregiudizio, senza dubbio grave, nei confronti di una persona innocente, fino a prova contraria. Speravamo di dover stracciare quel copione che si ripete ogni volta e ammettere che tutte le storie sono diverse.

Invece no.

La storia personale di Elisa è e resta sua, diversa da tutte le altre, unica e irripetibile. Ma esiste un’altra storia di Elisa che fa parte di una narrazione corale, scontata nel finale, che non tiene conto della sua individualità di essere umano libero, con una volontà propria. È la storia predefinita di tante donne, mandate a morte allo stesso modo e in massa, nell’olocausto contemporaneo che si consuma nell’indifferenza generale dell’opinione pubblica e mediatica, indignata ma non troppo, e a cui delle storie personali di queste donne non interessa poi molto.

Ché a mandarle a morte non sono solo i loro assassini.

A mandarle a morte è la narrazione con cui noi giornalisti definiamo questi criminali e creiamo una coscienza collettiva volta a empatizzare con il loro dramma.

È la trama del gigante buono, dell’uomo semplice, che non farebbe del male a una mosca, che a un certo punto non sa gestire qualcosa di più grande di lui. È l’uomo innamorato, sopraffatto da quel sentimento totalizzante che diventa ossessione e gelosia che, ci hanno insegnato sin da piccole, sono la prova del suo amore nei nostri confronti. Troppo amore, troppo…

E lui, sempliciotto, a un certo punto fa “una stupidata”. Ma le voleva bene. Ora piange. Non si dà pace.
Seppelliamo le vittime di femminicidio ancora prima di aver fatto loro il funerale. Lasciamo che smettano di essere protagoniste delle loro vite derubate e interrotte, spostando le luci sui loro assassini.

È così che Elisa, come Laura, Monia, Nicole e tutte le altre si trovano attrici non protagoniste della loro stessa vita, comparse funzionali alla sceneggiatura in cui i protagonisti sono sempre i loro assassini, di cui si dà un racconto “extra umanizzato”, fino a che non sono più così “disumani” ed è possibile provare per loro, se non comprensione, quasi pena.

A mandare a morte noi donne non sono mai solo i nostri assassini.

Perché non è vero che sono mancati i segnali, che è successo tutto all’improvviso a ciel sereno, senza che nessuno potesse capire.
È vero, semmai, che quei segnali sono sempre socialmente accettati.
L’ossessione di un “gigante buono” per una ragazza lo è.
Quella gelosia che ci hanno insegnato a trovare addirittura desiderabile e appagante, lo è.
Lo è il fatto di sentirci in dovere di essere pazienti e disponibili con gli uomini che soffrono “per colpa nostra” e che “ci amano troppo” (o sbagliate se non lo facciamo).

Perché la verità è che se un’Elisa oggi andasse a denunciare o, semplicemente, mostrasse timore nei confronti di un altro “gigante buono che la ama troppo”, finirebbe per trovarsi contro una comunità pronta ad additarla.

Perché lei esagera, direbbero;
perché lui è solo uno troppo buono, uno semplice che si è preso una cotta per lei, gli passerà;
perché lei di sicuro lo ha provocato o lo ha illuso;
perché oggi stai a vedere che uno non può neppure più essere innamorato di una donna senza essere scambiato per un molestatore.

Chiunque abbia vissuto in un paese o in uno di quei quartieri in cui ci si conosce tutti sa che queste parole sono vere.
Una donna diventa vittima solo quando muore (al netto di indizi che portino l’opinione pubblica a decidere, ça va sans dire, che “se l’è cercata”).

Prima di essere cadavere ogni scelta di ribellione è una scelta di coraggio, un disturbo alla comunità, che le costerà la sua lettera scarlatta.
O, in molti casi e in modo preventivo, qualcosa che lei stessa, abituata per prima alla narrazione di cui sopra, deciderà di tacere, per non disturbare, per non sembrare melodrammatica, per non sentirsi sbagliata.

“Non esagerare, la violenza sulle donne è qualcosa di serio. Il tuo caso è diverso” è il sottotesto che chiunque abbia subito violenza di genere, conosce bene: la società, spesso persino gli amici ti rimandano questa versione dei fatti, che spesso tu stessa accogli come reale, provando addirittura vergogna o sentendoti in colpa anche solo per averlo pensato.

Tanto che in molte continuiamo a prenderci cura, più spesso di quanto noi stesse crediamo, del nostro aguzzino.

E i segnali? Solo panni sporchi da lavare in casa, senza troppo chiasso, senza drammatizzare… Fino a che i panni sono pieni del sangue della prossima donna, che stavolta è il nostro.

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