Ci è voluto tempo affinché la lobotomia venisse finalmente presa in considerazione per ciò che è: una pratica barbara.

Dobbiamo aspettare la fine degli Cinquanta: solo allora la pratica cominciò a cadere in disuso, ma fino agli anni Ottanta ci furono ancora interventi. Anni e anni di sconsiderato utilizzo da parte dei medici, interventi da cui i pazienti uscivano devastati, benché i risultati scientifici che venivano divulgati presentassero una realtà fatta di successi e disturbi curati. In realtà, le ricadute erano frequentissime, per non parlare dei danni permanenti e dei tentativi di suicidio.

Lobotomia: significato

Oggi utilizziamo il termine “lobotomizzato” per riferirci a qualcuno che non reagisce agli stimoli, assente, ma bisogna rendersi conto che in effetti, in seguito all’intervento, le persone cambiavano davvero radicalmente personalità, allontanandosi dalla realtà e diventando come zombie, del tutto indifferenti alla realtà circostante.

Quella che sarebbe in seguito stata chiamata lobotomia fu scoperta per caso da Friedrich Golz, che, alla fine del’800, si accorse che in seguito a un involontario danneggiamento dei lobi temporali i suoi cani erano diventati meno aggressivi. Insomma, capì che maneggiare e manipolare il cervello chirurgicamente poteva curare i pazienti da manicomio. Il primo intervento della storia fu fatto nel 1895 da Gottlieb Burkhardt, direttore di un ospedale psichiatrico in Svizzera, che operò i primi sei pazienti. Pur avendo riscontrato un cambiamento radicale nel carattere di quattro di loro, la comunità scientifica criticò aspramente quel metodo barbaro, come approccio alle malattie mentali. Eppure, fino agli anni Trenta si continuò a effettuare interventi di quel tipo.

Il termine lobotomia vero e proprio risale a quando il dottor António Egas Moniz dell’Università di Lisbona e il suo collega Almeida Lima misero a punto una nuova metodologia di lavoro. La lobotomia divenne talmente popolare che Moniz ottenne il Nobel per la Medicina. Il suo sistema miracoloso calmava i pazienti più aggressivi e difficili ed evitava le grida isteriche che solitamente dominavano gli istituti. Ridurre a vegetali i pazienti, tenendoli per sempre a letto o in carrozzina, sembrò un ottimo metodo risolutivo.

Un altro medico, grande promotore della lobotomia nonché convinto esecutore, fu Walter Freeman. La sua tecnica prevedeva l’utilizzo di un martello e di un punteruolo lunghissimo (orbitoclasto), infilato nel cervello del paziente mediante il dotto lacrimale. Il suo metodo rimase in voga fino agli anni Cinquanta.

Lobotomia: a cosa serviva?

La procedura è stata largamente usata da fine ‘800 sino alla metà degli anni ’80 per curare soprattutto disturbi legati alla psiche:

  • depressione;
  • disordine bipolare;
  • schizofrenia;
  • disturbi della personalità.

Lobotomia: come si praticava

La lobotomia consiste nella recisione chirurgica di parte delle connessioni nervose della corteccia cerebrale frontale, la parte anteriore dei lobi frontali del cervello, che è l’area coinvolta nel comportamento emozionale, nella motivazione, nel riconoscimento di cose, persone, eventi, nella valutazione del rischio e nel comportamento sociale.

Il metodo Freeman introdotto nel 1945 prevedeva l’uso di un apposito strumento che evitava di devastare l’intero cranio e che usava come via d’accesso il dotto lacrimale. La tecnica fu rivoluzionaria, perché era talmente rapida e veloce che non necessitava neppure di ricovero. Divenne una sorta di “circo itinerante”, con Freeman che girava gli States per praticare l’intervento ovunque, anche al cospetto di giornalisti e curiosi.

Ma nei decenni precedenti, la pratica si avvaleva di metodi devastanti, fortemente aggressivi. La tecnica del dottor Egas consisteva nel praticare due fori in corrispondenza delle ossa craniche frontali del paziente e iniettare, nella sottostante corteccia prefrontale, alcol etilico puro, che distruggeva le connessioni nervose. Egas creò anche uno strumento apposito per eseguire la leucotomia prefrontale (lobotomia): il leucotomo.

Gli effetti collaterali e le conseguenze della lobotomia

In seguito a un intervento di lobotomia nei pazienti si notava un calo della spontaneità, della reattività, della consapevolezza di sé, dell’autocontrollo. Inoltre, si facevano avanti un certo assopimento dell’emotività e una restrizione delle capacità intellettive. Non era insolito che le persone si suicidassero, a distanza di alcuni giorni, o che soffrissero di attacchi epilettici. Frequente era l’aumento dell’appetito con conseguente aumento del peso corporeo.

La maggior parte dei “lobotomizzati” finivano il resto dei loro giorni in manicomio, in centri ospedalieri per malati mentali, costantemente monitorati e sotto controllo. Pochi erano i casi in cui i benefici superavano i danni e in cui, dunque, i pazienti potevano tornare a una vita pressoché normale.

Lobotomia: 4 storie

La lobotomia non si applicava soltanto a persone affette da gravi disturbi psichici. Divenne un modo per “sbarazzarsi” di persone ritenute scomode, socialmente non accettabili, disabili fisici, persino bambini semplicemente irrequieti o persone non adeguate al prestigio della loro famiglia.

1. Rosemary Kennedy

lobotomia Rosemary Kennedy
Fonte: web

La sorella del Presidente John Fitzgerald Kennedy, Rosemary Kennedy, subì la lobotomia a soli 23 anni. La sua famiglia non gradiva la sua condotta morale, sessualmente esplicita. Con la scusa di avere un ritardo mentale (in realtà era soltanto dislessica) la operò il dottor Freeman. La lobotomia la costrinse per sempre sulla sedia a rotelle, in stato vegetativo, incontinente e incapace di comprendere ciò che le accadeva intorno.

Se prima dell’intervento Rosemary era fonte di vergogna, dopo l’operazione le cose peggiorarono: passò il resto dei suoi giorni nascosta in un ospedale, affinché nessuno venisse a conoscenza delle sue condizioni. Persino sua madre smise di farle visita.

2. Soldato Tritz

Nel 1943 il Ministero della Difesa americana dovette fronteggiare una grave piaga sociale: la crisi dei reduci di guerra di ritorno dal fronte, uomini completamente stravolti e irriconoscibili. Il capo della Veteran Administration Frank Hines non ebbe esitazioni: diede l’ok a procedere, sugli ex combattenti, con la lobotomia. Martello e punteruolo per tutti, in perfetto stile Freeman.

Uno dei tanti soldati a cui toccò questa sorte fu il soldato Tritz: prima sottoposto a 28 elettroshock e infine costretto alla lobotomia, per curarlo dalle turbe mentali con le quali era tornato a casa dopo le missioni di volo della Seconda Guerra Mondiale. Per il resto della sua vita continuò a soffrire di attacchi epilettici, convulsioni nel sonno, incapacità di concentrarsi.

3. Evita Perón

lobotomia Evita Peron
Fonte: web

Nel 2015 la BBC, riprendendo il Neurosurgical Focus, ha riportato la teoria del neurochirurgo della Yale University Medical School, Daniel Nijensohn, secondo cui Evita Perón fu sottoposta a lobotomia due settimane prima di morire. Dunque la donna non sarebbe morta a causa del tumore, ma per quell’operazione al cervello, che la ridusse in stato vegetativo e ne accelerò la morte.

4. Josef Hassid

Il violinista prodigio Josef Hassid, nato in Polonia nel 1923, fu lobotomizzato in seguito alla diagnosi di schizofrenia. L’operazione fu tutt’altro che positiva: contrasse la meningite e morì ad appena 26 anni.

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