Panta rhei dicevano gli antichi filosofi greci, a voler significare che noi esseri umani siamo parte di un inesorabile mutamento e, che ci piaccia o no, difficilmente riusciremo a replicare due esperienze uguali tra loro. In parte siamo d’accordo con questo aforisma, non ci spiegheremmo altrimenti la necessità di esperienze differenti, o di atteggiamenti mutati dinanzi a situazioni simili e anche la volontà di innamorarci di persone diverse tra loro ma sempre simili e affini a quello che siamo noi in quel momento.

Abbiamo detto in parte perché dall’altra, invece, c’è sempre un segmento di noi che si radica sempre più in se stesso e, consapevoli o meno, ci accaniamo a mantenerlo immutato, quale fosse lo zoccolo duro di tutta la nostra esistenza.

Guardando I Figli del Fiume Giallo, ultima e somma opera di Jia Zhang-ke, il regista contemporaneo che con il suo terzo occhio ha saputo raccontarci nel corso degli anni una vicinissima e lontana Cina in una trasformazione continua, abbiamo sentito scorrere l’acqua di quell’antico fiume nel quale tutti noi abbiamo attinto la nostra esistenza e al quale più e più volte siamo voluti tornare. 

Fotogramma dopo fotogramma, abbiamo accompagnato Qiao, figlia di un minatore, interpretata dalla sublime e bellissima Zhao Tao, nello scorrere della sua evoluzione che nel film è concentrata in diciassette anni di narrazione, dal 2001 al 2018.

Tutto inizia a Datong, cittadina dello Shanxi, destinata a rimanere desolata per la chiusura delle miniere e la conseguente delocalizzazione dei suoi abitanti: un momento tragico per chi ha vissuto sempre di quel lavoro, un’opportunità diversa per i giovani che vogliono abbandonare certe abitudini e guardano con fascinazione sempre maggiore all’Occidente.

Di certo un contesto difficile che, come abbiamo osservato anche per altri film ambientati in luoghi e culture differenti, è fin troppo tristemente simile a realtà a noi molto vicine: se mancano cultura, educazione e stimoli la reazione umana sarà sempre all’insegna della violenza e della delinquenza.

Qiao è la donna di Bin (Liao Fan) piccolo boss locale che gestisce bische e che è unito alla sua banda da un forte codice d’onore e un altrettanto senso di fratellanza. Tali sentimenti molto radicati anche nella nostra protagonista la fanno essere fin dall’inizio una tipa molto “tosta” e perfettamente calata nel ruolo di compagna di chi conta, il suo perfetto alter ego femminile; non c’è bisogno che vi dica che molte serie televisive, soprattutto quelle di ultima generazione ci hanno abituato a ruoli di questo genere, generando degli stereotipi non propriamente positivi.

A un certo punto, però, gli eventi cambiano le sorti di tutti: Qiao si trova costretta a sparare per difendere il proprio compagno. Non uccide nessuno ma per la legge cinese il solo fatto di detenere illegalmente un’arma vale il carcere: cinque anni nel caso della nostra protagonista durante i quali a farle compagnia ci sono stati solamente i suoi ricordi e l’inesorabile scorrere delle giornate. Pagato il suo debito con la giustizia Qiao vuole riprendere a vivere esattamente da dove aveva smesso, ma purtroppo nulla è più come prima.

Bin ha un’altra e, malgrado le recriminazioni, le accuse, le continue iniezioni di senso di colpa e l’accanimento sentimentale che la porta quasi a pietire il suo ritorno, Qiao trova la forza per mollare ciò che non è stato e non sarà mai e riappropriarsi di se stessa; un percorso lungo, lento, doloroso ma vincente perché quando rinasciamo diventiamo più brillanti e forse anche stelle comete per chi abbiamo incontrato lungo il nostro cammino e spesso attiriamo nuovamente verso di noi chi credevamo perduto, ma con un altro spirito, un altro sé, un’altra forza, un’altra era della nostra vita.

Panta rhei.

Presentato a Cannes 2018 e designato “FILM DELLA CRITICA” dal Sindacato dei Critici Italiani, sarà in sala dal 9 maggio ed è distribuito da Cinema di Valerio De Paolis.

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