L’assegnazione del premio Nobel per la pace 2018 a Nadia Murad e Denis Mukwege, che si sono battuti pet tutelare i diritti delle donne che hanno subito violenze durante i conflitti armati, ha portato alla luce il tema delicatissimo degli stupri di guerra, purtroppo ancora molto diffusi e perpetrati come vera e propria arma contro il nemico.

Gli stupri di guerra sono violenze sessuali commesse dai soldati durante una campagna militare, sotto questo termine oltre agli stupri veri e propri rientrano anche tutte quelle situazioni di violenza che vedono le donne costrette a prostituirsi o a essere trasformate in schiave sessuali, come avvenne ad esempio durante la seconda guerra mondiale. Stiamo parlando delle comfort women, migliaia di donne, ragazzine e bambine reclutate con l’inganno dall’esercito imperiale giapponese tra il 1932 e il 1945 con la promessa di un lavoro o di una vita migliore, e che invece furono deportate in vere e proprie fabbriche del sesso in cui subivano ripetutamente abusi da parte dei soldati che sfogavano su di loro i più bassi impulsi.

Lo stupro può essere considerato a tutti gli effetti una vera e propria arma di guerra perché ha lo scopo di annientare, impaurire e umiliare il nemico commettendo violenze e nefandezze sui più deboli. Lo stupro in tempo di guerra diventa una violenza lecita e tollerata e non viene più percepito come un crimine: la forza militare occupante la pratica sistematicamente per distruggere il nemico e manifestargli la propria superiorità di conquista. Tra l’altro questo terrorismo psicologico non è solo fine a stesso per il conflitto in corso ma ha conseguenze piuttosto disastrose nel tempo: se infatti da un certo punto di vista è un barbaro segnale di dominazione rafforzato da una visione distorta sessista, dall’altro è un esplicito attacco alla cultura e alla religione del paese occupato. Il contesto in cui avvengono gli stupri di guerra può peggiorare la situazione delle donne che subiscono stupri e violenze perché la comunità può etichettarle come “sporche” ed emarginarle dalla comunità fino in alcuni casi a farle sentire talmente sole da commettere perfino dei suicidi.

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Le cose poi peggiorano ulteriormente quando a seguito di uno stupro ne consegue anche una gravidanza: la violenza sessuale ha spesso anche il fine del genocidio ossia di “depurare” la razza della popolazione attaccata nel conflitto. La donna in questo caso subisce un doppio trauma, quello della violenza in primis e quello poi di portare in grembo il figlio di un uomo che l’ha stuprata. In molti casi poi le donne rischiano di morire di parto oppure abbandonano i neonati per la vergogna di aver subito una violenza sessuale.

Un esempio di quanto possa essere esecrabile lo stupro di guerra lo mostrano i profughi Rohingya, minoranza birmana di religione musulmana cacciati dal paese con un’operazione di pulizia etnica. Decine di operatori umanitari di Save The Children che operano nel campo profughi di Cox’s Bazar in cui si è rifugiata la popolazione, si sono impegnati nella ricerca di donne che nascondevano le proprie gravidanze per la vergogna. Fra agosto e settembre 2017 diversi militari del Myanmar hanno compiuto atti barbari e stupri di gruppo contro le donne dei circa 700mila Rohingya esiliati in Bangladesh e quindi si sono stimate migliaia di gravidanze a seguito di queste violenze.

La Project coordinator di Save The children in Bangladesh ha dichiarato:

Per Save The Children la preoccupazione maggiore è per i neonati che potrebbero essere stati abbandonati oppure crescere etichettati come figli non desiderati, che è l’ultima cosa che vorremmo vedere per questi bambini. Quando si parla di violenze sessuali o di genere che vediamo nelle strutture sanitarie parliamo solo della punta dell’iceberg. In un campo enorme come questo non è facile trovare per le vittime le cure di cui hanno bisogno. Il timore è che le donne che hanno nascosto le loro gravidanze non solo rischiano di mettere a repentaglio la vita dei neonati ma anche la loro a causa della mancanza di cure idonee.

 

 

 

 

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