Femminismo di periferia, per una teoria femminista intersezionale

Il femminismo di periferia è una pratica situata, è un tipo di femminismo che non prescinde dalla sua ubicazione spaziale espulsa dallo spazio cittadino. Esso si elabora ed adatta in un’area geograficamente determinata come margine, nomenclata appositamente per determinare il confine con l’esterno.

Per raggiungere il quartiere mi servono 15 minuti di auto, quasi una decina in metro. Cinque o sei fermate veloci e scorrevoli, verso Comasina. I vagoni alle 8 di mattina sono praticamente vuoti, questo è l’orario dell’uscita, non del rientro. La metro che scorre nella direzione inversa è piena, zeppa e fradicia di persone. Dentro a questo verme di metallo scorro sotto la città per tornare a casa.

Si parla spesso di femminismo e più propriamente di femminismi, includendo tutte quelle realtà specifiche e particolari localizzate in ambienti, periodi e contesti diversi. I femminismi sono tutte parti essenziali del discorso femminista che non è, e non può essere, monolitico e statico. Il femminismo, inteso come insieme delle parti e dei percorsi, è un organismo complesso e trasversale, intersezionale per usare la più corretta delle espressioni e dare il livello di lettura più coerente alla sua natura complessa e plurale, capace di ragionare su come le oppressioni di sistema si abbinino le une alle altre in maniera feroce e pervasiva, colpendo alcuni gruppi con una dovizia di particolari spaventosamente distruttiva.

Scendo dalla metro e cammino poco, davvero poco, prima di raggiungere il cortile dove sono cresciuta, su cui si affaccia il balcone della mia casa. Mi avvicino al bar, mio padre e mio fratello mi aspettano. Prendiamo un caffè mentre le conversazioni si moltiplicano per ogni persona che entra nel bar. Non è certo una caffetteria a caso, questo è IL bar. C’è una determinazione assoluta, è l’unico a cui ci riferiamo e a cui ci ritroviamo sapendo con certezza che, prima o poi, qualcuno di noi spunterà per un caffè. È tempo di lavorare e i miei si ritirano, assorbiti dall’ufficio qui accanto. Li vedo andare via, un fiume che si riavvolge in se stesso, mentre srotolo il computer per mettermi a scrivere, per descrivere e forse raccontare cosa c’entri tutto questo con il mio essere femminista.

Femminismo di città

Di recente, ha fatto scalpore un libro bellissimo edito da Treccani dal titolo “La città femminista“, di Leslie Kern in cui l’autrice offre un’analisi davvero brillante sui modi in cui la discriminazione di genere domina le proporzioni delle formazioni urbane. Il femminismo si inserisce – si sta inserendo –  nella progettazione o nella rielaborazione dei rapporti urbani per produrre città diverse. Eppure, leggendo e cercando su internet e negli archivi universitari, mi ritrovo sempre con un vuoto tra le mani. Un vuoto grande come un quartiere, il mio. Un buco nella mappa del femminismo.

Manca l’idea del femminismo di periferia, ne manca una definizione, perché di fatto esso esiste e si percepisce dalle diverse narrazioni e più di tutto dalle biografie. I movimenti dal basso hanno uno storico rapporto con le periferie e con l’espulsione urbana. Esistono studi sulla critica femminista alle periferie, sugli approcci femministi alla periferia, ma manca un concetto, un’espressione che ne dia centralità.

Esiste un articolo accademico, THE REALITIES OF SUBURBAN FEMINISM: A study of feminism in the suburbs of Gothenburg among the immigrant communities, che analizza come le donne che abitano in periferia si approccino al femminismo come meccanismo e strumento per arginare le dinamiche disfunzionali proprie del luogo di riferimento. Lo studio è centrato su Gothenburg e offre una prima panoramica di un fenomeno che si declina in maniera differente a seconda della zona di riferimento. Il femminismo di periferia, se dobbiamo dargli una connotazione specifica, deve essere sempre localizzato, quindi ragionato in luce della periferia, della città e del paese, perciò si può, o piuttosto si dovrebbe, parlare di femminismi di periferia. Soprattutto, esiste un’analisi del femminismo in periferia, ma non esiste una teorizzazione che racconti questa pratica. E ancora, esso è citato all’interno di studi sullo sviluppo urbano sostenibile, ma una teorizzazione assoluta e centrata sulle sue dinamiche, quindi non una sua collocazione strumentale, non è diffusa.

Femminismo di periferia

Il femminismo di periferia è una pratica situata, è un tipo di femminismo che non prescinde dalla sua ubicazione spaziale espulsa dallo spazio cittadino. Esso si elabora ed adatta in un’area geograficamente determinata come margine, nomenclata appositamente per determinare il confine con l’esterno. Il femminismo di periferia si costituisce all’interno di quella parentesi, in quel cuscinetto spaziale in cui i servizi si diradano, la discriminazione di genere svela uno dei suoi volti più feroci, e la distensione della provincia si affaccia timidamente ogni mattina quando i pendolari raggiungono le stazioni di metro e treni.

La forza centripeta del discorso della e sulla città tende ad attirare la dimensione della lotta verso il centro, aspirandola e smussandola, lasciando nelle strade e negli ambienti domestici della periferia istanze cruciali e sperimentazioni proprie delle zone periferiche. Quello che accade in periferia viene raccontato da chi occupa il centro, le parole sono quelle del centro e quindi anche le soluzioni.

Il mio quartiere, la Comasina, è particolarmente espulso della città di Milano, arrotolato attorno ad una piazza circondata da un dedalo di case popolari, esteso fino alle porte di Villa Litta segnate dalla presenza di due sfingi silenziose, donne mitiche e animalesche che racchiudono nel loro silenzio il timore e il pregiudizio che la città nutre verso il quartiere.

La violenza, la discriminazione del femminile, più ancora del femminile povero e razzializzato, sono elementi propri di una marginalità invisibilizzata a cui la città pensa di aver posto rimedio con una stazione della metropolitana e un parcheggio di cemento che ha mangiato un prato intero.

La retorica della protezione del femminile, della brutalità del maschile sono presenti e ordinarie, ed è in relazione a questa pervasività che il femminismo situato della Comasina prende forma integrando le dinamiche di cancellazione collettiva. Nelle zone di margine sistemico la violenza cresce, in maniera esponenziale e il centro offre sempre un’interpretazione tutta sua a riguardo. Spiega il fenomeno come una questione di qualità umana, più per parlare di sé che della realtà periferica, per definirsi come moralmente differente e per questo più civile, più rappresentativo della città stessa. Ciò che il centro manca di raccontare sono proprio le dinamiche espulsive alla base di comportamenti devianti, l’assenza di servizi, la collocazione territoriale, il degrado ambientale e la socializzazione di quartiere.

Le dinamiche del margine

Uno studio del 2021 apparso su The University Press Chicago Journal firmato da Heblich, Trew e Zylberberg, ragiona sul perché la parte est delle città industriali sia tendenzialmente più inquinata. Lo studio offre una prospettiva unica su una dinamica periferica, la concentrazione di una classe lavoratrice in un ambiente con meno servizi e con una forte erosione della qualità ambientale. Sappiamo che l’inquinamento incide drasticamente sulla qualità della vita delle persone ed in particolare su quella delle donne, sappiamo che la povertà incide sul consumo di sostanze alcoliche e sappiamo quanto la combinazione di povertà, assenza di servizi, scarsa qualità ambientale ed espulsione sociale influiscano sulla violenza domestica e sulla cristallizzazione dei ruoli di genere. Banalmente, in un territorio con pochi servizi, pochi ambienti in cui le donne possano esistere al di fuori dell’ambito domestico e al contempo poche modalità di gestione della vita degli infanti (parchi, luoghi di aggregazione sociale, asili etc) le donne saranno maggiormente colpite dalla discriminazione di genere che impone loro di sobbarcarsi i ruoli di cura. E ancora, considerando che nelle classi meno agiate le donne lavorano per necessità, il lavoro di cura in assenza di sostegno statale, pesa sul monte ore giornaliero iniquamente determinato. Alle donne della periferia viene richiesto un impegno temporale che ingloba la loro esistenza in maniera completa.

Uscita forzata

Nel mio quartiere non ci sono librerie. Prima dell’arrivo del centro commerciale Metropoli a Novate e della Metropolitana M3, per comprare un libro bisognava guadagnare il tempo di un autobus o due per avvicinarsi alla metropolitana che conduce al centro. Un tempo non sempre possibile, che più spesso viene dedicato ad altre incombenze proprie della cura. Le librerie, con le loro sezioni sul femminismo, sono lontane da noi. Fisicamente conquistabili da chi ha tempo e risorse da investire, non solo nel tragitto, ma anche nella lettura successiva.

Le iniziative culturali esterne all’ambito della chiesa si collocano già nel quartiere accanto, chiedendo sempre e costantemente una fuoriuscita che, non sempre, è possibile. Festival, fiere, eventi culturali, da noi non arrivano a meno che non siano le persone del posto a ragionarci. Arrivano alcuni politici, quelli delle destre interessati a fomentare il razzismo dilagante, a intrattenere comizi senza spessore capaci solo di vederci come voti. Il discorso che portano qui non è mai per noi, per le nostre esigenze, ma è solo per sfruttare il bisogno di essere visti e ascoltati. L’abuso del desiderio di visibilità e considerazione si traduce sempre in un ulteriore espulsione a danno delle persone razzializzate, di quelle criminalizzate e di quelle marginalizzare per identità e orientamento.

Le dinamiche di quartiere sono imperniate su una comunicazione costante, una conoscenza quasi morbosa dell’altro, ma ruotano attorno ai pregiudizi e a i luoghi comuni più sfrenati, dalla donna madre, necessariamente madre, impossibile da immaginare non eterosessuale alla convinzione assoluta che qualsiasi credo non cattolico sia causa dei problemi di quartiere.

Vedovato vs violenza

Oggi, proprio mentre scrivo, le persone del grumo di condomini attorno al mio si stanno radunando per andare ad un funerale. Come un piccolo paese, questo trancio di quartiere si svuota e si coagula verso la chiesa. Una piccola massa di corpi abbracciati da abiti neri che si stringe attorno alla vedova del palazzo accanto. C’è preoccupazione, interesse e anche un distorto senso del dovere. Nell’andare e nel trovarsi, si parla di tutto, di quel lavoro in fondo alla via che il comune non completa da anni ai pettegolezzi sulla coppia del 15 che non condivide più il tetto. Che forse lui era violento, ma queste cose non si sanno mai bene. Sono i discorsi degli uomini, che preparano minacce, le incorniciano in un pacchettino pre-impostato per consegnarle al violento la cui innocenza probabile tendono sempre a specificare. Le donne, sanno qualcosa di più. Hanno sentito il suono degli schiaffi, hanno ascoltato l’amica piangere dopo le dimissioni dall’ospedale, l’hanno osservata assicurare agli agenti che non è successo niente, hanno visto questi fare spallucce, e hanno tenuto un occhio puntato su quel marito che per tutto il tempo ha mantenuto gli occhi fissi sul cranio di lei, quasi potesse leggervi dentro ogni cenno di tradimento. Lo hanno detto ai mariti, io c’ero in un paio di casi, le ho viste prendere le mani dell’amica e dirle che deve andare via, che quello non cambia. Mi hanno chiesto di trovarle un numero da chiamare e ho chiamato io stessa per lei, ma poi non è riuscita ad andare, a dire quello che avrebbe voluto, perché lui è pur sempre suo marito e una donna senza marito è cosa strana.  

La sorellanza invisibile

Della vedova, moglie estrema, si preoccupano tutti.  Di quel’altra figura, sempre più evanescente, un po’ meno perché non è che se lo è inventato? In segreto, per aiutarla a uscire da quella casa, hanno lavorato molte donne. Donne che non leggono libri sul femminismo, ma che sanno come far uscire di casa un’amica senza che il marito se ne accorga. Le stesse che le hanno trovato un lavoro, che hanno convinto lei a sedere davanti ai poliziotti a raccontare tutto. Sono le stesse che quando una famiglia ha un nuovo nato ma non i soldi per offrirgli il necessario svuotano le cantine, tirano fuori le tutine, la bilancia, il baby monitor e promettono che la figlia adolescente glielo guarderà mentre studia quando riprenderanno il lavoro. Sono le donne del welfare invisibile, quelle che praticano il femminismo ma non lo chiamano per nome perché suona come una parolaccia e certe cose, no, proprio non vanno bene. Sono le persone che capiscono esattamente quanto un asilo in centro o uno in quartiere facciano la differenza nella gestione del lavoro, della prole e del futuro della medesima e provano le migliori triangolazioni perché il risultato sia una media soddisfacente per tutti. Sono le donne che il femminismo dovrebbe trovare ed integrare, quelle che con il velo in testa devono sedere nell’ufficio del preside per difendere la figlia non considerata abbastanza italiana dai compagni di scuola sapendo di essere prese meno sul serio in partenza, ma che non cedono un centimetro. Sono le persone discriminate di cui spesso il femminismo parla ma che non fa parlare, che hanno trovato un modo per costruire una rete di genere. Sono quelle che guadagnano meno, che hanno a disposizione un centro commerciale per trascorrere il tempo, che lavorano nell’economia sommersa, spesso nel welfare informale, sono quelle che vengono molestate sui tragitti per raggiungere il luogo di lavoro, quelli in cui i lampioni funzionano poco ma al Comune cosa interessa. Quelle i cui genitori le valutano come un asset, un bene e pretendono che agiscano di conseguenza. Quelle che con i pochi soldi del lavoro devono far quadrare i conti di una casa intera e al contempo controllare che i figli procedano diritti come fusi nell’istruzione, temendo il giorno in cui arriveranno a casa con un rifiuto impresso nelle ombre del viso.

L’emancipazione economica è viziata da una tendenza ad allontanarsi dalla scuola, a cercare un impiego dal sapore temporaneo in vista di un figlio e della vita a casa, inframmezzata dal lavoro necessario a rimpolpare i conti familiari ma non sufficiente a garantire una potenziale autonomia. Le possibilità delle donne si restringono e dilatano in funzione del divario lavorativo di genere e della divisione, socialmente determinata, della cura familiare. Secondo l’ISTAT, circa il 38,3% delle donne occupate ha modificato il proprio percorso lavorativo per conciliarlo con le esigenze familiari, nel 73% dei casi sono le madri a lasciare l’impiego quando il carico di lavoro familiare rende necessario che uno dei partner rinunci al lavoro. In un contesto come quello delle periferie, queste statistiche si intersecano con una maggiore marginalizzazione dal tessuto urbano e, di fatto, la vita si riduce ad una dimensione spaziale più limitata che impedisce un allontanamento fisico. Questo, unito al rifiuto del centro per tutto ciò che abita la periferia e alla scarsa indipendenza economica rende difficile sfuggire a situazioni di abuso o accedere ai diritti considerati essenziali.

Scelte comandate

La scuola e il lavoro competono nelle periferie. Da un lato il desiderio di far studiare i figli, di lasciare che frequentino la città nella sua interezza e che possano immaginare una prospettiva che comprenda l’università è incentivata, dall’altro questa aspirazione si scontra con i costi di tali studi, la spesa di un figlio a carico per lungo tempo e il bisogno, spesso improrogabile, di avere uno stipendio in più in casa. La spinta lavorativa è sentita anche dai ragazzi che desiderano essere economicamente autonomi, con buona pace della scuola. Purtroppo il divario di genere agisce anche in queste aspirazioni, e l’aspettativa di diventare madri, presto, è predominante rispetto al desiderio di proseguire con gli studi. Lo studio, soprattutto quello universitario, non è solo un privilegio di classe ma anche del centro. Per raggiungere, banalmente, l’Università Statale di Milano, dalla Comasina ci vogliono 20 minuti di metro per un costo giornalieri di almeno 4 euro o 50 euro di abbonamento annuale con un ISEE inferiore ai 6.000 euro, ma più spesso 200 euro di abbonamento. Prima che la fermata fosse aperta la distanza era enormemente più impegnativa, costituita da un complesso intrico di autobus e biglietti. Studiare all’università significa frequentare le lezioni, consumare almeno un pasto fuori casa, comprare libri costosi o passare ore in biblioteca. Per lavorare e studiare, bisogna spesso fare scelte drastiche, come non frequentare le lezioni, con tutto quello che una scelta del genere comporta.

In molte famiglie permane l’idea che lo studio sia finalizzato ad ottenere una posizione lavorativa di rilievo, lo studio come valore economico è stato inglobato dall’idea iper-competitiva del sistema capitalistico patriarcale. E per le donne questo significa essere considerate solo come meccanismo produttivo, capaci di generare capitale umano o capitale economico. Nelle periferie, questa drammatica dequalificazione dell’umano viene esacerbata dalle esigenze della vita in una città costosa.

Perché definire un femminismo di periferia?

Una delle cose più interessanti del femminismo è che esso ha valore intrinseco, esso è valido in quanto legittima rivendicazione umana. È un principio di giustizia. Eppure, nonostante la sua vocazione piena di dignità riesce anche a produrre un’utilità nel pratico. Ad esempio, a cosa potrebbe servire tutto questo mio accanirmi sullo specificare l’esigenza di parlare di femminismo di periferia?

Il centro non integra le dinamiche della periferia e nemmeno il femminismo del centro si scomoda per essa. Il centro non considera la collocazione dei servizi pubblici, l’accessibilità dei consultori, non ragiona sulla capacità del quartiere di impedire ad una donna di sfuggire all’abuso domestico. Il femminismo del centro, allo stesso modo, esclude visioni e comprensioni proprie della periferia. Non indaga il particolarismo collettivo che si realizza negli ambienti periferici, non esplora le modalità adattative e reattive delle reti informali di politica e solidarietà dal basso che creano ambienti di soccorso, supporto e informazioni. La periferia è ignorata. Il centro e il suo femminismo non osservano le potenzialità del quartiere, perché non le conoscono. Lasciano indietro la capacità di aggregazione collettiva, la resistenza al caro vita condivisa, le azioni messe in campo per gestire la pandemia, la solitudine delle donne anziane in un momento di isolamento assoluto. Tutto ciò che è, a volte, in grado di fare è proporre un discorso urbano appena conscio dell’esistenza della periferia, declinandola però sempre nelle dinamiche del centro e delle sue modalità di esistenza. Quando si parla di parchi, di verde, di accessibilità e investimenti per la cultura non si pensa mai ad aprire uno spazio culturale, un museo, una libreria o a rinnovare un parco in periferia. I lavori, arrivano dieci, venti anni dopo le richieste. Il centro assorbe, attira e impasta. Ma la periferia non ha bisogno di essere centralizzata, ha bisogno che si spezzi la frattura tra centro e periferia, ha bisogno che la città diventi consapevole delle sue estensioni.

Un orizzonte più completo

Il femminismo di periferia è una pratica, una necessità ma anche un potenziale da esplorare per comprendere meglio non solo una vita totalmente espulsa dal discorso cittadino, ma per integrare nell’intersezionalità delle cose le discriminazioni specifiche e peculiari di chi vive al margine, lontano dal centro. Serve ed è essenziale, per costruire una continuità che non assorba ma inserisca, che non appiattisca e riconosca. Il femminismo di periferia è una pratica attiva, dal basso, che propone una ricalibrazione dell’idea stessa di urbanità. E deve essere ascoltato, teorizzato, e diffuso per dare ad esso lo spazio che il centro gli nega, lo stesso centro che organizza festival femministi in zone privilegiate, imbellettate, rendendo difficile, impossibile per alcuni, raggiungere la discussione e accedere a forme di sapere più orizzontali.

Il femminismo di periferia è una prospettiva, un cambiamento radicale estremamente connesso alle soggettività marginalizzate in misura maggiore, ovvero le donne, le persone non eterosessuali e non cis-gender, le persone razzializzate, le persone povere, le persone con un passato criminale, le persone disabili (che in periferia sono spesso bloccate da un’assenza totale di urbanità inclusiva ma che non sempre possono permettersi di vivere nelle zone accessibili del centro) e via scorrendo nel complesso intrico di oppressioni e sistemi di svantaggio strutturale. Il femminismo di periferia non si studia, ma si pratica, forse ora ne ho offerto una prima teorizzazione ai fini di inquadrarlo in una definizione ma la sua azione è in essere già dagli anni ’60.

Ed ecco a cosa serve il femminismo di periferia, serve a sostenere laddove manca il sostegno, a rappresentare ciò che non è accettato o che si finge di non vedere, serve a ricordare che per essere intersezionale il femminismo e la città, la mia città, devono essere capaci di vedere oltre la cerchia dei bastioni.

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