Togliere il cognome a una donna rischia di renderla 'una qualunque'

Si parla di donne, sempre raccontate, mai rappresentate. Madri, figlie, sorelle queste sono le indicazioni che vengono fornite per indicare le donne di cui si fa menzione. Il cognome, l’identità minima in buona sostanza, viene spesso omesso.

Le testate giornalistiche mostrano una tendenza costante a riportare i nomi delle donne di cui raccontano senza accompagnarli al cognome, alla competenza o a un ruolo che non sia l’identità funzionale familiare.

L’atto di rimuovere una parte del nome e di presentare l’individuo solo in relazione al suo ruolo familiare non è casuale, piuttosto è il prodotto di un sistema ordinato capace di riprodursi e conscio di quanto i meccanismi comunicativi possano influenzare la percezione del gruppo umano a cui quell’individuo appartiene. Si parla di donne, sempre raccontate, mai rappresentate. Madri, figlie, sorelle queste sono le indicazioni che vengono fornite per indicare le donne di cui si fa menzione.
Il cognome, l’identità minima in buona sostanza, viene spesso omesso.

Il cognome mancante

L’assenza di cognome è una privazione sistemica di un’indipendenza di fatto. Non è insolito ancora oggi che una donna, al momento di sposarsi, assuma il cognome del marito. Il che suggerisce quanto l’identità femminile sia socialmente espressa in funzione del grado di prossimità del maschile. Sorvolare sul cognome femminile si innesta in questo modo di esperire l’identità in base al suo legame con il maschile esterno.

Quello a cui assistiamo su base quasi quotidiana sui giornali è un atto collettivo di spersonalizzazione individuale e collettiva perché alimentare questo modo di elaborare l’esperienza femminile non fa che rinforzare i contorni oppressivi.

Nome proprio di persona, un’amica in lei

Parlando spesso di storie di donne, ma non di donne in maniera specifica, si crea un colloquio monodirezionale improntato sulla conferma dell’immagine sociale del femminile. Le donne vengono appellate per nome proprio, ma senza cognome, come se si avesse una confidenza speciale con loro, una confidenza che non il maschile non ci si arroga per rispetto della carica e della ragione per cui ne si parla.

Così, Vanessa Nakate, attivista ugandese contro il cambiamento climatica, è solo Vanessa, soprattutto è solo Vanessa comparata ad Obama, in un titolo in cui il divario tra i due voleva essere reso in maniera drastica e percepibile.

Il femminile viene fatto percepire come prossimo, prono alla confidenza, abbordabile e tangibile. L’imposizione di prossimità riporta il femminile, che sia professionale o istituzionale, nell’ambito familiare collocandolo nuovamente nel percorso umano preconfezionato dalle aspettative derivate dai ruoli di genere.

Le donne sono quindi dipinte come un’entità accogliente, ma respingente. Il fatto di poterne parlare senza adottare i canoni stilistici del rispetto della carica, le forme non confidenziali, annulla la distanza e incrementa la sensazione di vicinanza del rapporto. Si orizzontalizza l’esperienza del potere femminile, non raccontandone la collocazione prossima al vertice in un sistema piramidale con un linguaggio congruo.

Il femminile è spesso definito in antitesi al maschile

Le donne sono donne, quindi entità che definite in ottica maschile risultano essere connesse a particolari stereotipi di comportamento – cosa fare – e di cultura – come farlo-.

Le apposizioni per le soggettività al femminile ricalcano questi stereotipi indicando qual è il ruolo all’interno della famiglia, che siano madri, mogli, fidanzate o figlie, il tema è ricorrente e serve a indicare qualcosa di più subdolo e spesso meno considerato: un complemento di specificazione. Madri di, figlie di, sorelle di, compagne di. Quella piccola preposizione semplice ha in realtà uno scopo logico specifico e incontrovertibile, esprimere un possesso, una proprietà sociale effettiva. Le donne, nella narrazione spersonalizzata, sono sempre e comunque considerate oggetto su cui qualcuno esercita un diritto di proprietà. Questa semplice attribuzione deriva e rinforza la dinamica sociale più concreta, per cui compito di una donna è realizzarsi in una categoria di cura, possibilmente quella materna, e quindi essere la donna scelta da e quindi di proprietà di e la madre di.

Lei rimane soggetto apparente, legittimata nella sua esistenza come identità secondaria a quella formatasi nel suo utero. Questo strettissimo legame identitario tra donna e maternità si ripropone poi nello stigma che accompagna le donne senza figli o le donne che abortiscono. Se l’idea di donna è costruita in riflesso di quella maschile ed è connaturata alla maternità, una donna non madre viene considerata meno donna, incompleta.

Quasi come se l’identità donna dovesse per forza avere un risvolto nel materno, altrimenti “te ne penti”. Il pentimento, non è tanto esperienziale quanto identitario e sarebbe opportuno che il linguaggio fosse più onesto nel palesarlo, anziché ascriverlo a una questione emotivo-relazionale. Il sentimento di dolore per il non aver fatto qualcosa di prescritto è un meccanismo di indirizzamento del percorso di vita, nel momento in cui si devia, anche minimamente, da quanto la società prescrive si rompe una norma morale che vede nelle donne il mezzo per ottenere prole. Si ottiene quindi il rinforzo della subordinazione del femminile al ruolo di genere e alla morale biologica.

Una donna qualunque

Una donna senza nome, e sicuramente senza cognome, è davvero una donna qualunque. Spersonalizzare implica negare anche le ragioni per cui quella persona sta venendo citata, intervistata o raccontata in un articolo.

Ad esempio, di poche settimane fa è il titolo che specificava “La scienziata che ha scoperto la nuova stella: – All’inizio pensavo a un errore, mai visto niente così-”. La scienziata era Natasha Hurley-Walker, professoressa di astrofisica della Curtin University. Eppure, nel titolo risultano omessi nome e cognome, formazione e professione. Perché? Basta osservare altri titoli per trovare una risposta.

“L’addio di Angela, la “ragazza” venuta dal freddo”, riferito ad Angela Merkel, Cancelliera federale della Germania, Presidente del G8 e del Consiglio Europeo.
E ancora, “Una mamma al comando dei carabinieri”, in relazione alla nomina di Giulia Maggi.

Si nota un’evidente reticenza a riconoscere che una donna, con nome e cognome specifici, possa ricoprire certe cariche come individuo e non come narrazione a-tipica. Infatti, gli articoli hanno lo scopo di enfatizzare la stranezza del femminile in certi contesti, richiamandolo con piccoli artifizi narrativi, Merkel definita “ragazza” e Maggi “mamma”.

I ruoli di potere vengono così ridimensionati, nominati nel corpo del testo ma non riconosciuti come titolo. Il modo in cui si narrano gli eventi e la selezione del contenuto parlano molto più di quanto siamo portati a cogliere liminalmente, andando ad assestarsi nel subliminale. Il depotenziamento del femminile come collettivo passa dalla subordinazione del femminile individuale nelle modalità di racconto.

Si opera un appiattimento capace di nascondere, almeno in parte, la presenza e l’eventuale successo femminile in ambito lavorativo o istituzionale. Perché se si parla di una donna a caso, allora anche il motivo per cui ne si parla è casuale. Si trasmette l’idea che quella donna non abbia meriti, spesso nemmeno nome, se non quello di essere una storia raccontata dall’esterno, una storia che deve essere scritta e fruita, monetizzata, distruggendo la sua reale portata storica.

Le donne al potere sono la dimostrazione empirica che i ruoli di genere sono costrutti sociali, che non esistono carriere più adatte al femminile, ma che il femminile è stato relegato ad alcune carriere. Le donne con nome e cognome sui titoli di giornali potrebbero essere riconosciute e conosciute nelle loro caratteristiche personali distintive ed identitarie. Potrebbero insegnare la definizione individuale autonoma e non relativizzata a una controparte a cui spetta per principio di attribuzione a priori il potere.

Di cosa non si vuole parlare?

Una donna non a caso è sempre seguita da tante donne non a caso. Si crea una tendenza, un ribaltamento di piani e consapevolezze. Ed è questo che la narrazione collettiva, ancorata alla ripartizione predeterminata dei ruoli, non apprezza, non vuole elaborare e cerca di limitare ricordando a tutte le donne che, anche se dovessero diventare capi di governo rimarrebbero “una donna”, al massimo chiamata per nome come un’amica, una mamma, una sorella, una figlia. La spersonalizzazione è un mezzo di repressione linguistica, votata a prevenire una conversazione sul potere femminile.

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