Strumentalizzare la violenza è una violenza e alcuni politici continuano a farlo

Parlare di violenza di genere non è cosa semplice, nonostante lo possa sembrare. Le dinamiche linguistiche con cui si narra abitualmente la violenza di genere e, nello specifico, la violenza sessuale sono spesso improprie, frutto di un sistema che racconta per mantenere e non per decostruire.

Parlare di violenza di genere non è cosa semplice, nonostante lo possa sembrare. Le dinamiche linguistiche con cui si narra abitualmente la violenza di genere e, nello specifico, la violenza sessuale sono spesso improprie, frutto di un sistema che racconta per mantenere e non per decostruire.

La violenza sessuale è una delle forme di violenza più spettacolarizzate ed esasperate dalla narrazione collettiva, soprattutto da quella politica.

Ne sono evidenza ultima, ma non prima, le reazioni e le dichiarazioni di alcuni politici nei giorni immediatamente successivi alla diffusione delle notizie relative alle violenze sessuali avvenute la sera di capodanno.

La strumentalizzazione della violenza di genere

Da Santanchè a De Corato, non sono mancate le voci pronte a specificare una specifica colpa politica o umana. Addirittura, c’è stato chi ha correlato i fatti di capodanno all’arrivo via mare di persone migranti. Lo scopo di queste dichiarazioni, però, non è tanto quello di offrire un commento costruttivo su una vicenda specifica, quanto più offrire un commento veloce, ripetibile, capace di ascrivere quella violenza a una specifica scelta politica.

Questa è una classica strumentalizzazione, ovvero l’uso di un fatto o un evento come mezzo per conseguire un fine. Le narrazioni contenute nei commenti relativi alle violenze sessuali modificano sempre la causalità imputandola a una scelta politica della parte avversaria, suggerendo quindi che a comportamenti di voto differenti conseguano sicurezze diverse.

Usare una storia di violenza per un tornaconto personale, quale che sia, è una forma di violenza sociale e psicologica in quanto prevede che la violenza abbia uno scopo, sfruttabile. Si tratta di una costruzione di realtà inconscia quanto pericolosa, se la critica politica si costruisce sulla presenza di un fatto criminale, in un sistema politico in cui la demagogia premia con seggi parlamentari, il rischio è che la politica acquisisca un interesse maggiore a non debellare la forma di violenza.

Al venir meno del terreno critico viene meno il messaggio politico, dunque rischia di venir meno la garanzia di una poltrona.
Una delle dinamiche più ricorrenti della strumentalizzazione politica della violenza sessuale riguarda la costruzione di un ordine ristretto di responsabilità. Questa viene attribuita all’attore della violenza o alla vittima, senza allargare lo sguardo alle dinamiche socio-culturali in cui tale violenza avviene. Chiedendo la pubblica gogna del violento la politica può mostrarsi animata ed umana, vicina alle vittime, meglio ancora alle famiglie delle vittime, e traslare su di sé un’immagine totalmente opposta a quella della violenza.

Se però il violento è troppo ordinario, troppo comune, troppo poco mostro, allora la colpa viene ricercata nei comportamenti della vittima colpevole di non aver rispettato dei canoni oppressivi di modestia e responsabilità. La visione diventa binaria, imperniata sull’odio verso il violento o sullo scetticismo nei confronti della vittima.

Il mantenimento dello status quo

La gravità dell’atto, le sue conseguenze di lungo corso e la matrice da cui si origina vengono dimenticate.
La strumentalizzazione politica della violenza sessuale permette di proteggere lo status quo.

Nel normale ordine delle cose, infatti, il pubblico linciaggio alla velocità di un tweet può essere venduto come reazione sufficiente a legittimare il potere. In buona sostanza, il sistema patriarcale protegge sé stesso con l’indignazione fine a sé stessa.

Infatti, se vi fossero reali intenzioni a eliminare la violenza sessuale si parlerebbe di proposte di legge, di decreti legislativi e di interventi multilivello. Si investirebbe nei CAV per iniziare ad avere maggiori effetti nel brevissimo periodo, si creerebbero delle risorse da destinarsi al microcredito per aiutare le vittime di violenza ad allontanarsi dai violenti e si diffonderebbe l’obbligo per le forze dell’ordine di partecipare a periodici e ripetuti corsi di aggiornamento per imparare non solo ad accogliere ma anche ad incentivare le vittime a denunciare.

L’investimento, però, dovrebbe essere esteso anche a politiche di medio e lungo periodo. I programmi scolastici dovrebbero integrare l’educazione all’affettività e alla sessualità e i destinatari di questi programmi dovrebbero essere gli alunni tanto quanto gli insegnanti. Sarebbe poi opportuno estendere tali programmi ai luoghi di lavoro, pubblici e privati. Infine, dovrebbero essere stanziati fondi e lavoro ministeriale per comprendere e ridurre le diseguaglianze sistemiche che si servono della violenza sessuale come mezzo di contenimento e oppressione.

Il divario salariale e quello lavorativo, ad esempio, sono causa di una forte subordinazione di genere, trattandosi di una ripartizione iniqua di potere economico su base pregiudiziale, impediscono fisicamente alle vittime di violenza di genere di intrattenere rapporti paritari o di poter sfuggire ad ambienti e persone abusanti.

La politica razzista

La strumentalizzazione permette alla politica di parlare di violenza sessuale e violenza di genere in piccole campagne mediatiche senza dover proporre programmi complessi e articolati che indirizzino le risorse del Paese verso una reale riduzione dell’iniquità.

Inoltre, una costante nella narrazione di interesse, è la sua natura fortemente razzista. La notizia di una persona non italiana, o presunta tale, sospettata di aver commesso un atto di violenza sessuale, infiamma la politica. Quel caso, statisticamente ascrivibile alla minoranza degli eventi violenti (appena il 18%) diventa improvvisamente assoluto e capace di assorbire qualsiasi altro evento. Ciò consente di giustificare politiche razziste e islamofobe nel nome della protezione del “noi interno” da un ipotetico “loro esterno”, di affermare una presunta superiorità morale e di riconfermare un disequilibrio nella ripartizione del potere.

Le donne da proteggersi sono oggetto, proprietà dello stato, corpo della nazione da tutelare da un nemico, spesso immaginario. Trattandosi di un nemico costruito la sua immagine è plastica ed elastica, pronta ad accogliere tutte le dinamiche nuove che necessitano di una giustificazione superiore e incontestabile.

Infatti, non è un caso che la politica strumentalizzatrice si scagli apertamente contro le persone razzializzate, ancora più se musulmane. Tramite la paura dello stupro o il suo verificarsi, la propaganda definisce il colpevole come esterno ai propri valori, sovra ordinandoli e rendendoli automaticamente giusti al di sopra di ogni ragionevole dubbio.

Infine, questo uso e abuso delle storie di stupro cambia la percezione sociale dello stesso. Lo stupro è una rappresentazione sociale, è ritualizzato e normato. È un evento di sistema e come tale andrebbe combattuto. Certamente non è un fatto casuale o su cui costruire una campagna elettorale.

La strumentalizzazione, oltre ad essere una lesione, è una derivazione sistemica funzionale a mantenere i codici rappresentativi in essere. Infatti, se la violenza viene usata come mezzo per un fine essa acquisisce un ruolo funzionale ulteriore nella società. Per derivazione, la strumentalizzazione diviene un potente mezzo sociale di conservazione. Affinché la violenza sia ulteriormente normalizzata e introiettata, la strumentalizzazione ricorre ad una selezione oculata di storie e vicende, sempre più spettacolari e inquietanti, capaci di costruire un mostruoso quasi assurdo a confronto con il quale la violenza ordinaria sembra, a tutti gli effetti, accettabile.

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