"Non ho mai voluto diventare madre. Devo giustificarmi per questo?"

La maternità rappresenta troppo spesso un destino obbligato per noi donne. Scegliere di non avere un figlio comporta sempre giustificazioni agli occhi di una società che giudica e colpevolizza. La realizzazione personale attraversa la nostra storia e si compie nei nostri desideri. Questa è la mia storia.

Non ho mai voluto diventare madre. Ma mai davvero, nemmeno per un istante. In alcuni momenti ho creduto di doverlo volere, rimandando quindi l’insorgenza di questo morbo, denominato “istinto materno”, a tempi migliori. Niente, ancora oggi non pervenuto.

Sì, lo so, nessuno mi ha chiesto niente, e non c’è bisogno all’apparenza di fare di ogni cosa un manifesto, eppure credo sia importante provare a raccontarmi per due ordini di ragioni. Il primo, più evidente (vedi le recenti affermazioni del coordinatore di Forza Italia Antonio Tajani), riguarda il profondo pregiudizio che investe le donne che scelgono di non volere un figlio, e che diventano lo specchio di una qualche incompletezza nell’ordine di quel destino naturale a cui sembrano destinate.

La seconda, più intima, riguarda tutte le volte in cui questo pregiudizio l’ho sentito su di me, in maniera più o meno diretta, mettendomi nella condizione di giustificarmi, o peggio ancora di edulcorare il mio vissuto per renderlo più digeribile all’interlocutore di turno. Non credo di essere la sola, ma magari mi sbaglio.

Premessa fondamentale: sono cresciuta giocando ad accudire bambole e bambolotti, mi piaceva molto. Nessuno in famiglia mi ha mai imposto “giochi da femmine”, ma mi sono sempre sentita libera di sperimentare tutti gli spazi dell’immaginazione.

Amavo molto anche guardare il wrestling con mio fratello maggiore e provare a riprodurre con lui tutte le mosse (non fatelo a casa, qualche cicatrice che mi è rimasta potrebbe aiutarvi a desistere). Non per questo sono diventata Hulk Hogan. Allo stesso modo ero appassionata fin da bambina di mitologia greca e letteratura latina. No, da grande non avrei scritto una nuova versione dell’Iliade.

Ma allora, se non ho sentito su di me il peso di una carriera da wrestler o da scrittrice, perché nel mio destino quel bambolotto ha rappresentato il preludio di quello che la società si sarebbe aspettata da me come compimento del mio destino?

Non mi sono mai pensata come madre. Nemmeno quando avrei potuto pensarmici e realizzarlo. Solo il pensiero mi crea un terrore paralizzante, ancora di più se immagino che per diventare madre in ipotesi bisogna anche partorire, scena intollerabile solo se ci penso. Ma questo non ho mai potuto dirlo, in realtà.

L’età dell’adolescenza, in cui almeno nel mio caso, non sentivo la necessità di pormi la questione, ricevevo di tanto in tanto dei piccoli echi. Lavorare ai fianchi, fiaccarne a poco a poco la resistenza, è così che si dice in gergo sportivo. “Quando avrai un figlio poi capirai”, era la frase che mi veniva rivolta da mia madre, di tanto in tanto, in risposta generalmente a qualche mia richiesta non accolta, o alla condanna impietosa alle sue manovre genitoriali. Non “se”, ma “quando”, portandomi gradualmente alla convinzione che non avrei potuto avere altra strada possibile.

Di pari passo, tuttavia, cresceva la consapevolezza sempre maggiore del fatto che avere un figlio non mi interessava come faccenda, e se talvolta provavo a immaginarlo, al posto mio c’era sempre qualcun’altra, magari simile a me, ma non ero io.

Con il tempo, di questa mancata attitudine, se n’è accorto anche chi mi era accanto; diciamo che il fatto che abbia sempre toccato a fatica i pancioni di parenti e amiche, o non abbia mai (e dico mai) voluto prendere un neonato in braccio, forse qualche indizio lo hanno fornito. Ci hanno provato, con eroico coraggio, a farmi avvicinare a qualche bambino, magari semplicemente per accarezzarlo, toccargli i piedini o giocare un po’, forti magari del ricordo dei bambolotti d’infanzia, ma niente, non c’è stato niente da fare.

Negli anni, a quello che oggi io incarno come decisione, si è provato a dare un nome o una giustificazione. Una volta era il bisogno di affermazione lavorativa, la volta dopo era la persona inadatta che avevo al mio fianco, che non mi faceva pensare concretamente all’ipotesi di una famiglia, fino ad arrivare alla considerazione che fossi ancora troppo figlia per pensarmi come genitore.

Insomma, c’era sempre qualcosa che esulava dalla mia volontà a non permettermi di pensarmi come madre e che mi rendeva inabile al conseguimento dell’agognato traguardo.

Il punto più elevato si è raggiunto quando mi sono sentita dire: “la maternità non fa per te, sei troppo egoista e poi non sai badare a te stessa, figurati a un’altra persona”. Magari è anche vero, ma da lì si è toccato, fortunatamente, un punto di non ritorno e di estrema rassegnazione da parte dei miei affetti.

La cosa che a oggi ritengo più interessante, sulla base di una analisi a ritroso di questa vicenda, è il fatto che non mi sia mai sentita in diritto di replicare al peso che questa società mi buttava addosso, considerando queste giustificazioni anche come un atto di umana compassione per la mia amara condizione.

Tante volte mi sono sentita in difetto per quella scintilla mancata: quando non riuscivo a rispondere in maniera adeguata alle aspettative e al desiderio che gli altri riponevano in me, semplicemente per un apparato riproduttivo potenzialmente adeguato, oppure quando venivo a sapere che una mia coetanea aveva magari già un paio di figli al seguito.

Non ho mai avuto la forza necessaria per rivendicare con forza quello che ad oggi incarno non solo come una volontà, ma come un profondo desiderio per la mia vita.

“Pensa a tutte quelle persone che non possono averlo”, mi è stato detto, che a pensarci oggi mi fa anche sorridere, ricordandomi quando mi si chiedeva da bambina di mangiare tutto pensando ai bambini dell’Africa. Mi spiace, ma non credo di poter interferire attraverso le mie scelte con il vissuto e la realizzazione di altre persone. Potrei, al massimo, interferire con la volontà e il desiderio della persona che ho accanto, ed è per questo che credo sia fondamentale che tra le pratiche del consenso rientri anche la necessità di condividere punti di vista e visioni comuni anche sull’aspetto della riproduzione.

Ad oggi non sento più il bisogno di approvazione per le mie scelte, né il peso del giudizio e delle aspettative. Oggi, perché in passato per me non è stato così. Ed è per questo che rivendico il diritto a una società in cui per nessuno di noi viga in funzione di un destino già scritto.

La natura ci ha fregati, è quanto di più culturale esista, soprattutto quando parliamo di genitorialità e di istanze autodeterminative. Conta quello che vogliamo, che ci rende felice e ci fa stare bene, facendoci sentire realizzati.

Tutto il resto non può più appartenerci.

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