Se vi chiedessero “da dove vieni?” la risposta sarebbe semplice, e immediata. “Sono italiano”, “vengo dall’Australia”, “sono europea”. Per alcune persone, invece, rispondere a questa domanda è molto più difficile.

Luca Guadagnino ha dipinto questa sensazione in We are who we are, che racconta le vite dei figli dei militari statunitensi in una base militare veneta, cercando di rispondere – fra le tante – anche alla domanda che da sempre accompagna i cosiddetti “Third Culture Kids”: cosa significa per un bambino – è l’adulto di domani – venire da tanti luoghi, e da nessuno?

Third culture kids: chi sono e cosa significa?

Figli di un mondo globalizzato, i Third Culture Kids – o TCK – sono quei bambini e adolescenti che crescono in uno o più Paesi diversi, generalmente per seguire i genitori nel proprio lavoro.
Secondo la definizione dei sociologi Pollock and Van Reken nel loro libro del 1999, Third Culture Kids: The Experience of Growing Up Among Worlds, un TCK è:

un individuo che, avendo trascorso una parte significativa degli anni di sviluppo in una cultura diversa da quella dei genitori, sviluppa un senso di relazione con tutte le culture pur non avendo la piena proprietà in nessuna. Elementi di ciascuna cultura sono incorporati nell’esperienza di vita, ma il senso di appartenenza è in relazione ad altri che hanno vissuto un’esperienza simile.

In sintesi: persone che hanno vissuto gli anni dello sviluppo in un contesto culturale diverso da quello dei genitori e sono stati, quindi, influenzati da diverse culture, dando vita a una cultura nuova e diversa da tutte le precedenti. Una “terza” cultura, appunto.

Sono i figli e le figlie di militari, religiosi, diplomatici, ma anche di genitori impiegati in settori particolari – come quello petrolifero – o di famiglie che hanno dovuto lasciare il Paese d’origine a causa di un conflitto per poi tornare una volta finita la guerra, come nel caso dell’Afghanistan.

Possono vivere a lungo in un unico paese – è il caso, spesso, dei “Missionary Kids” – o spostarsi frequentemente, anche a causa di regolamenti che impediscono ai genitori di prestare servizio per più di un certo numero di anni nello stesso luogo, come i figli dei diplomatici.

Third culture kids: le origini

La prima a utilizzare il termine “Third Culture Kids”, coniato negli anni ’50, è stata la sociologa e antropologa Ruth Useem, dopo il suo secondo soggiorno di un anno in India con il marito John e tre figli. In The interfaces of a binational third culture: A study of the American community in India, pubblicato con il marito nel 1967 sul «Journal of Social Issues», vengono descritti questi:

individui che hanno vissuto un’esperienza tale da avere standard distinti di comportamento interpersonale, norme relative al lavoro, codici di stile di vita, prospettive e comunicazione. Questo crea un nuovo gruppo culturale che non rientra nella loro cultura di casa o ospitante, ma piuttosto condivide una cultura con tutti gli altri TCK.

Questi sono detti anche “nomadi globali” (talvolta anche ibridi culturali o camaleonti culturali) un sinonimo coniato da Norma McCaig, che ha utilizzato questo termine in Growing up with a World view per enfatizzare quanto la situazione di questi bambini e adolescenti fosse il risultato della carriera o delle scelte di vita dei genitori.

Third culture kids e adattamento

Tendenzialmente, i TCK si dimostrano più indipendenti, maturi e consapevoli del mondo che li circonda rispetto ai coetanei che crescono e si formano in un unico paese o un’unica cultura. Sebbene le variabili che influenzano il percorso individuale di ciascuno (la situazione familiare, la frequenza e la durata degli spostamenti, l’età e molte altre), la principale caratteristica comune ai Third Culture Kids è un’elevata capacità di adattamento, testimoniata da diversi studi e ricerche.

Il cambiamento è parte integrante della loro vita, non solo perché spesso li coinvolge direttamente ma anche perché, frequentando altri TCK, sono influenzati anche dai cambiamenti – frequenti – nelle loro vite.

A caratterizzarli è una maggiore tolleranza: generalmente, ritengono di essere in grado più degli altri di adattarsi alle nuove culture e di capire come comportarsi in modo appropriato in questi nuovi ambienti.

L’acculturazione è stressante ma l’esperienza di doversi adattare ed essere in contatto con lingue e culture diverse rafforza l’empatia culturale e l’apertura mentale.

Un percorso che non è però privo di difficoltà: il rovescio della medaglia è spesso la difficoltà a legarsi a luoghi o persone è la sensazione di essere senza radici, o non riuscire a crearne.

I third culture kids nella società odierna

Poliglotti, cosmopoliti, aperti al mondo: i Third Culture Kids sembrano essere i cittadini del futuro globalizzato, ma quali sono le loro caratteristiche? E soprattutto, di quante persone stiamo parlando? Purtroppo, non ci sono statistiche precise ma, considerando che il numero di tutti gli espatriati corrisponde a circa 230 milioni, stiamo sicuramente parlando di milioni di ragazze e ragazzi di “terza cultura”.

Secondo un sondaggio del 2011 di Denizen, una pubblicazione dedicata proprio ai TCK, la maggior parte dei TCK si è trasferito prima dei nove anni (secondo altri dati ancora prima, a 4,5 anni) e ha vissuto in media in quattro paesi. La maggior parte ha una laurea – nel 44% de casi acquisita prima dei 22 anni – il 30% una qualifica post-laurea e l’85% parla due o più lingue.

Tutti attributi che contribuiscono a rendere i TCK attraenti per i datori di lavoro. Non è un caso che cercando “third culture kids” sui motori di ricerca escano tra i primi risultati articoli come “Cinque ragioni per cui dovresti assumere Third Culture Kids”, basato, tra gli altri, su articoli come “8 motivi per cui i Third Culture Kids hanno il potenziale per essere grandi leader” o “Perché i third culture kids sono ottimi impiegati”.

Intelligenza, sensibilità verso la diversità e inclusione, spiccate capacità interpersonali e di adattamento, curiosità e capacità di problem solving, senza dimenticare la dimestichezza con le lingue: ecco cosa assicura il successo dei TCK sul mercato del lavoro. Istruzione, gestione aziendale, medicina o lavoro autonomo sono i campi professionali preferiti dai TCK, nella maggior parte dei casi in posizioni altamente qualificate.

E, sebbene non tutto sia facile per loro – i dati mostrano come la depressione sia prevalente tra i TCK e come, soprattutto al momento del rimpatrio, il loro senso di identità e benessere possa essere messo a dura prova – la maggior parte dei third culture child non rinnega il modo in cui è cresciuta: il 60%, anzi, è pronto a tramandare la tradizione in famiglia, crescendo i propri figli come cittadini del mondo e di terza cultura.

La discussione continua nel gruppo privato!
Seguici anche su Google News!