Avere le mestruazioni è un fatto della vita. Un evento fisiologico che ha ripercussioni non solo sulla quotidianità ma a volte anche sulla salute, sul lavoro e persino sull’economia. La naturalezza con il quale si presenta (e si dovrebbe parlare) di questo evento cozza però con i racconti atroci delle donne con le mestruazioni nei lager. Come si vivevano le mestruazioni nei campi di concentramento, qualcuno se lo è mai chiesto?

Un articolo di History Today della storica Jo-Ann Owusu nel 2019 ha svelato le storie mai raccontate delle donne con le mestruazioni nei lager. Un tema poco dibattuto, spesso considerato irrilevante al confronto di tutto ciò che l’Olocausto è stato. Ma che pure apre scenari su come deve essere stata l’esperienza femminile in un contesto in cui la privazione della libertà e la perdita dell’umanità erano il cuore dell’intero piano di sterminio nazista.

Un racconto che dà nuovo valore alle mestruazioni, intese non solo come biologia ma anche come riconquista di una femminilità perduta, dopo anni di prigionia e di amenorrea (assenza di mestruazioni) causata dal trauma, dalla mancanza di cibo e da problemi di salute.

Storie di donne con le mestruazioni nei lager

L’inchiesta di Owusu sposta l’attenzione sull’esperienza delle donne nei campi di concentramento con un’accurata ricerca di testimonianze e racconti orali e scritti. Si parla spesso – per fortuna – di Olocausto in termini psicologici: cosa ha rappresentato per le persone deportate vivere nei campi di concentramento? Però, negli anni, ci siamo chiesti poco “come” hanno vissuto da un punto di vista pratico. Anche perché, spesso, i racconti sono molto forti, difficili da digerire. Quello delle storie delle donne e del loro ciclo, del rapporto con le mestruazioni e le limitazioni igieniche nei lager in questo senso è un punto di vista dal valore storico e umano incredibile.

Jo-Ann Owusu ha analizzato gli studi compiuti soprattutto sulle conseguenze della prigionia, in particolare sulla perdita delle mestruazioni di cui tantissime donne hanno avuto esperienza durante la permanenza nei lager. Un grande spazio ce l’hanno anche gli studi sulle tecniche di sterilizzazione condotte dai medici sulle donne, con cui la biologia veniva forzata a puri scopi di tortura. Le ricerche di esperte come Sabine Hildebrandt e Anna Hájková citate dall’inchiesta di History Today si sono concentrati sugli aspetti medici della questione. Ma quando le mestruazioni arrivavano, cosa succedeva?

Le mestruazioni avevano un grande impatto sulle donne vittime dell’Olocausto in tanti modi: per molte, le mestruazioni erano collegate alla vergogna del sanguinamento in pubblico, all’impossibilità di gestirle. Ma ha anche salvato molte donne da stupri. Allo stesso modo, l’amenorrea per tante è stata fonte di ansia: sulla fertilità, sulle implicazioni sulla loro vita dopo la prigionia e sulla possibilità di avere figli in futuro.

Ai tempi le mestruazioni erano uno stigma: sanguinare faceva provare vergogna e gli uomini stavano ben lontani dalle donne col ciclo. Oggi questo sarebbe un paradosso, uno stereotipo sulle mestruazioni da superare. Ma, come racconta Owusu, durante l’Olocausto per molte donne ha significato la salvezza dalla violenza sessuale e l’opportunità di legarsi ad altre donne, in un processo di sorellanza e di creazione di rapporti viscerali anche in una situazione limite come quella dei lager.

Le testimonianze delle donne con le mestruazioni nei campi di sterminio

La perdita dell’identità, quella di donne spogliate di ogni cosa potesse anche solo ricordare il femminile, erano prerogativa degli artefici dell’Olocausto. Si perdeva peso, sui fianchi e sul seno. Si perdevano i capelli per via della malnutrizione. E in molti casi si perdevano le mestruazioni. Come racconta Erna Rubinstein, sopravvissuta ai lager quando era adolescente, nel suo libro di memorie The Survivor in Us All: Four Young Sisters in the Holocaust:

Cos’è una donna senza la sua gloria in testa, senza i capelli? Una donna che non ha mestruazioni?

Il vero problema arrivava quando le mestruazioni facevano capolino. Impossibili da nascondere, impossibili da contenere senza protezioni o condizioni igieniche adeguate. La testimonianza della sopravvissuta Trude Levia sulla sua esperienza di ragazza ventenne nei campi di concentramento dà la misura di quanto dovesse essere difficile avere a che fare con le mestruazioni senza acqua corrente:

Non avevamo acqua per lavarci, non avevamo intimo. Non potevamo andare da nessuna parte. Ci rimaneva tutto addosso ed è stata l’esperienza più disumanizzante che io abbia mai vissuto.

Spesso si ricorreva a mezzi di fortuna, a pezzi di tessuto strappati da lenzuola e custoditi gelosamente sotto il cuscino fino al ciclo successivo, come ha raccontato Julia Lentini, diciassettenne ai tempi della prigionia ad Auschwitz-Birkenau. Si aguzzava l’ingegno per vivere meno la vergogna di essere sporca, di vedere il simbolo massimo della mancanza di igiene sul proprio corpo senza poterlo lavare via.

Nonostante il carico di disagio legato alla sfera delle mestruazioni e al fatto che, se continuavano a presentarsi queste fossero esposte a tutti, in alcuni casi il ciclo mestruale è servito per salvarsi. La testimonianza di Elizabeth Feldman de Jong, nel racconto della storica Jo-Ann Owusu, è emblematica in questo senso.

Non molto tempo dopo che Elizabeth era arrivata ad Auschwitz il suo ciclo sparì. Sua sorella invece continuava ad averle ogni mese. Gli esperimenti che prevedevano iniezioni nel ventre erano molto comuni, ma non nelle donne con le mestruazioni, per cui il dottore rimandava la seduta. Un giorno Elizabeth venne chiamata per l’operazione e visto che non c’era biancheria pulita prese quella di sua sorella. Al dottore disse di avere il ciclo, e lui si rifiutò di operarla.

Le mestruazioni erano vissute come repellenti, non solo per gli uomini ma anche per le donne. Molte sopravvissute anziane raccontano di aver guardato inorridite le ragazze più giovani sanguinare, di non riuscire a farne a meno anche se non si avevano alternative. Ma questo retaggio culturale, in certi casi, era salvifico: anche gli uomini odiavano le mestruazioni. I casi di stupro mancati proprio grazie alle mestruazioni, nel racconto di Owusu, sono tantissimi.

Lucille Eichengreen, una giovane ebrea tedesca prigioniera, ha raccontato nel suo memoir che durante il periodo a Neuengamme tra il 1944 e il 1945 aveva trovato una sciarpa: sperava di poterla usare per coprire la testa. Ma sapeva che la sciarpa era un capo proibito nei campi, così, per nasconderla, se la mise tra le gambe. Quando una guardia tedesca provò a violentarla, trovò la sciarpa e penso fosse una protezione per le mestruazioni. La lasciò andare urlando “Lurida puttana! Stai sanguinando!”come se fossero le mestruazioni la cosa di cui vergognarsi, e non lo stupro.

Alcune ragazze, arrivate bambine nei lager, hanno vissuto l’arrivo delle mestruazioni da prigioniere. In quei casi il supporto arrivava dalle compagne più anziane, in un crescendo di solidarietà e sorellanza che, nella letteratura legata all’Olocausto è stata definita “Camp Families”.

Tania Kauppila, una ragazza ucraina nel campo di concentramento di Mühldorf, aveva 13 anni all’arrivo delle prime mestruazioni. Non sapeva cosa stesse succedendo, era spaventata e pensava che sarebbe morta. Sono state le donne più grandi di lei a spiegarle tutto, a gestirlo come poteva il flusso di sangue con un po’ di carta rubata da una borsa.

I “Camp Families” e questi meccanismi di mutua assistenza che le donne mettevano in campo per sopravvivere alle tempeste quotidiane nei lager sono il cuore di questo racconto, di questa inchiesta su come vivevano le mestruazioni le donne prigioniere. Di cosa rappresentassero, da un punto di vista psicologico e individuale. E anche del perché la loro ricomparsa nelle sopravvissute ha significato una riconquista non solo della libertà di fare ciò che si vuole, ma anche di quella che ti fa essere ciò che sei. Donna, con le mestruazioni.

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