Il giornalismo italiano è transfobico, omofobo e perseguita chi non è conforme

Se il giornalismo italiano non riconosce il problema, ma pensa a una svista o a correggere parole come se fossero refusi e non mattoni culturali, allora il giornalismo italiano stesso è morto e ha finito la sua funzione di verifica delle fonti, indagine, ricerca, interpretazione autorevole dei fatti, delle cause e delle loro conseguenze e ha rinunciato alla capacità di raccontare la società e le sue evoluzioni.

Uccide la sorella e pesta l’amica perché non accettava la loro relazione: dramma nel Napoletano

Con questo titolo La Voce di Napoli dà conto della morte di Maria Paola Gaglione, scaraventata a terra dal fratello mentre era in scooter con il compagno Ciro Migliore, qui definito “amica” non riconoscendo la sua identità di ragazzo trans.

Open, Il Mattino, Corriere della Sera, Agi e molte altre testate cartacee, digitali e televisive titolano facendo riferimento a una relazione “gay” o “omosessuale” (cosa che ovviamente non è).
La titolazione ricalca il modello del lancio Agi:

Il fratello la sperona e la uccide perché gay: “Volevo darle una lezione, era infetta”

Sotto, nell’occhiello e nel testo, l’omofobia e il sessismo del giornalismo italiano ritornano prepotenti.
Quello del fratello non è una spedizione punitiva: si parla di “dramma”, “tragedia”, depotenziando la violenza a una concatenazione di eventi degenerati con ampio margine di casualità.

Alcune testate si affrettano poi a correggere, a sostituire gay con lgbt, a ristabilire la verità e a dare dignità a posteriori all’identità del compagno Ciro Migliore e alla sua relazione con Maria Paola Gaglione. Altre neppure fanno lo sforzo.
Tocca agli utenti sui social commentare che titoli e contenuti sono profondamente sbagliati, offensivi, omofobi, arcaici e patriarcali.
Tocca a Ciro Migliore dire chi è (dalle pagine del Corriere):

Non volevano che stessimo insieme perché dicevano che eravamo due femmine. Ma non è vero. Io non sono una femmina. Avevo 15 anni quando ho capito di essere un uomo, mi sentivo e mi sento un uomo. E Maria Paola mi ha sempre amato come uomo».

I social media manager delle testate giornalistiche principali, nella migliore delle ipotesi, si scusano tentando la difesa de “il titolo era sbagliato e lo abbiamo corretto, ma dentro abbiamo utilizzato i pronomi e il maschile in modo corretto”.
Giornali e giornalisti chiedono venia (raramente), tendenzialmente preferiscono correggere come se si trattasse di un refuso, mostrando in un colpo solo l’imbarazzo nel doversi trovare a scegliere parole che non sanno come usare e rendendo evidente un’ignoranza meschina e colpevole.
Perché se fai il giornalista e usi le parole sbagliate, se fai il giornalista e non sei in grado di rappresentare la realtà per quella che è, allora la tua ignoranza non è veniale ma colpevole.

Colpevole di riduzionismo e mistificazione della realtà.
Colpevole di omofobia e sessismo perché è omofobo e sessista cancellare la narrazione di esistenze multiple incastrandole, di nuovo, in un unico punto di visita e in una sola storia della quale loro sono l’eccezione, oscena o da accettare a secondo del nostro grado di indulgenza.
Colpevole di alimentare una cultura sociale violenta e machista che ha una sola visione, che sminuisce, umilia e sopprime ciò che non le è conforme.

La morte di Maria Paola Gaglione e l’aggressione all’uomo che aveva scelto d’amare è una storia, ancora una volta, di negazione.
Da parte del fratello che, da vero maschio di casa decide di negare alla sorella il suo diritto di essere una donna libera, di vivere secondo i propri valori e amare chi vuole, e a Ciro il suo diritto di esistere, in quanto essere umano che non deve giustificare il suo essere uomo.
Da parte della famiglia e del parroco che dichiara

stiamo attenti a dipingerla come una storia di omofobia. Forse non sanno nemmeno cos’è. Quel che è vero è che non erano preparati e non vedevano di buon occhio la relazione con Ciro ma so che si stavano abituando all’idea. Tuttavia erano preoccupati perché Maria Paola era andata via di casa a soli 18 anni e temevano per un futuro senza lavoro e più che mai incerto.

e di chi condivide queste parole.

Ma prima di tutte queste singole negazioni, c’è quella a monte di un’intera cultura e dei suoi rappresentanti.
Ne abbiamo avuto l’ennesima prova con questa storia in cui il giornalismo italiano, con l’ottusità di chi non vuole capire e si crede innocente, ha dato prova di essere ancora impantanato in un sistema di valori discriminatorio e arcaico; peggio, di alimentarlo, essendo incapace di rinnovarsi e di trovare un nuovo linguaggio per plasmare una nuova e più equa realtà.

In casi come questi, in passato lo abbiamo visto a più riprese, direttori di testate, giornalisti e intellettuali vari negano, dicono che il problema è circoscritto alla responsabilità di qualche singolo e, alla peggio, fanno cadere qualche testa minore per ripulirsi la faccia, mostrando così tutta la gravità in cui versa l’informazione.

Sia chiaro, non l’abbiamo scoperto ora che il giornalismo italiano è omofobo, transfobico e, ovvio, anche razzista e misogino.
Ma serve prendere coscienza di ciò che questo significa.
Perché se il giornalismo italiano non riconosce il problema, ma pensa a una svista o a correggere parole come se fossero refusi e non mattoni culturali, allora il giornalismo italiano stesso è morto e ha finito la sua funzione di verifica delle fonti, indagine, ricerca, interpretazione autorevole dei fatti, delle cause e delle loro conseguenze e ha rinunciato alla capacità di raccontare la società e le sue evoluzioni.

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