Ruth George è stata uccisa il fine settimana scorso, a Chicago. Aveva 19 anni.

Probabilmente non leggeremo di lei sui media italiani, già intasati di femminicidi nazionali per poter ragionevolmente pensare di dedicarsi a tutti quelli che accadono nel mondo.

Perché ne parlo qui? Perché ho scelto lei, tra le tante che ogni giorno pagano il prezzo di essere donne?
Perché Ruth sono io ed è ogni donna. Lo dico seriamente. Senza retorica.

Quando ho letto del femminicidio di Ruth George sul New York Times l’ho pensato davvero: in quel garage sono morta io.

Ruth sta rincasando da una serata passata con gli amici.
Piove, ma questo non è importante. Si affretta per raggiungere il garage dove ha lasciato la sua auto.
Un uomo la nota, la trova carina, cerca di richiamare la sua attenzione.

Forse fischia, forse le dice qualcosa che lui non esiterebbe a definire un complimento.
Ruth lo ignora. Probabilmente accelera il passo.
Lui insiste.

Ruth è una preda, il cervello ha attivato una procedura di emergenza che è un misto di istinto animale e razionalità:

Posso batterlo con la forza fisica? Sì o no? No!
Posso scappare e urlare? Sì, no, ma è davvero il caso o stai esagerando?
Se mi arrabbio provoco una sua reazione o si spaventa?
E se fingo di parlare al telefono con il mio ragazzo?

Ruth ha i muscoli tesi e i nervi in allerta: vuole solo raggiungere la sua auto. Là dentro si sentirà un po’ più sicura.
Sta zitta, Ruth.
Perché lo sa che l’unico modo per aumentare le sue possibilità di salvarsi è farsi piccola, non provocare, diventare invisibile.

Ruth è abitata da un turbinio di emozioni che affinano i sensi e, al tempo stesso, li confondono: frustrazione, rabbia, paura, schifo, senso di sporco e sì, pure di colpa; anche se lo sa che non è colpa sua. Eppure d’istinto prova a coprire meglio con la giacca un’eventuale scollatura o a guadagnare, tirandola, qualche centimetro di orlo della gonna, qualora ne indossasse una.

Ruth vuole solo tornare a casa.

Lui, dirà, che l’indifferenza della ragazza, il suo ostinarsi a ignorarlo, ha caricato la sua rabbia.
È colpa di Ruth, insomma, che non è stata gentile. Lui le faceva complimenti e lei si è comportata male.
Per quello, l’ha uccisa. Poco prima che riuscisse a chiudersi nella sua auto.

Mi si potrebbe contestare, a ragione, ogni parola di questo discorso in soggettiva.
Non è il racconto di Ruth, è vero.
Nessuno, se non Ruth, potrebbe, con il senno di poi, darci la sua versione di quegli attimi.

Ma Ruth non ce la può raccontare la sua versione di quei minuti, meno di trenta dai “complimenti” all’omicidio, come testimoniano le videocamere che hanno ripreso l’uomo seguirla nel parcheggio e uscirne da solo.

E allora chiedo: quante donne, al netto del finale, potrebbero sostituire al nome di questa ragazza sconosciuta il proprio in questo racconto?

Quante di voi hanno pensato “è successo anche a me”‘
Come è possibile che io, senza conoscere la donna che mi sta leggendo, abbia scritto con esattezza emozioni, pensieri e scene che conosce bene, perché vissute in prima persona?
Quante hanno pensato “è quello che è successo quella sera in cui volevo solo tornare a casa senza avere paura?”.
Per essere corretti dovremmo forse dire che è la cronaca di più di una delle nostre sere; di minuti di paura in cui “voglio solo tornare a casa” era una speranza, quasi una preghiera, non più solo la battuta con cui abbiamo salutato stanche qualcuno a fine serata prima di incamminarci sulla via del ritorno da sole.

Chiedo al lettore maschio o chiedetelo voi a un amico, fratello, padre, compagno se come me siete donne:

Quante volte, tornando a casa da solo, la sera hai avuto paura?
Cosa temevi ti accadesse?
Come ti sei sentito?
Hai mai dovuto fingere una telefonata con qualcuno o di suonare a un campanello per dare l’impressione di essere arrivato a casa?

Alcuni uomini vi racconteranno, è vero, di serate in cui hanno avuto paura sì, ma di essere derubati.
Probabilmente qualcuno si è trovato anche a temere per la propria vita, ma è stata un’eccezione.

Non per noi. Ci è successo, nel corso della nostra vita, spesso; potremmo azzardarci a dire quasi ogni volta che siamo rientrate, a sera tardi e a piedi, da sole.
Alcune volte l’aggressione si è fermata al commento, a uno sguardo predatore che ci si pianta addosso e ci mette in allarme.
Altre abbiamo maledetto com’eravamo vestite e il fatto stesso di aver osato la libertà di rincasare a quell’ora in solitaria, cercando in noi una responsabilità che non c’è, ma che ci hanno insegnato ad assumerci al posto del maschio.

Difficilmente un uomo vi dirà di aver sentito la necessità di fingere una telefonata con qualcuno, lasciando magari intendere che quella persona è lì nei paraggi, che ci sta raggiungendo o ci aspetta.
Difficilmente vi descriverà quel senso di sporco, che ti resta addosso quando chiudi la porta di casa e pensi che ti è andata bene.

Chi si ostina a minimizzare il catcalling, riconosce come normale un atteggiamento predatorio e intimidatorio che non lo è.
E allora chiedo, soprattutto a chi pensa “stai esagerando”, agli uomini e alle donne che deresponsabilizzano il catcalling a “complimento” di tentare un altro sforzo di empatia.

Immaginate una sera, una donna che rientra a casa ed è sola in una strada isolata: un uomo sconosciuto si avvicina, la guarda e le dice “sei molto bella” (uso volutamente un esempio irrealistico, in cui il catcaller è una sorta di pseudo gentiluomo galante, provolone sì ma educato; cosa che non è mai).
Riuscite a immaginarlo? Bene, ora ditemi:

Come vi sentite, se siete donne, o come pensate si senta una donna?
Compiaciuta o in pericolo?

Credo che sia chiaro a tutti che il sentimento dominante sarebbe quello di pericolo!
Bene, un complimento non mette in allarme, non ti fa sentire sporca, minacciata, in pericolo, frustrata, arrabbiata.

Le conosco le obiezioni di alcuni:

Ma cosa vuol dire? Quella è un’eccezione, di notte, in una strada isolata…
Di giorno invece è bello, ti fa sentire apprezzata, se fossi un cesso non ti direbbe niente nessuno.
La storia di Ruth è un’altra cosa, un’eccezione anche quella.

No, queste storie non sono un’eccezione.
E, a parte il fatto del problema culturale e concreto di sentirsi “apprezzate” da uomini che ci fischiano o ci importunano, è inaccettabile pensare che sia un’eccezione il finale della storia di Ruth, senza ammettere come inevitabili numeri e casistiche del femminicidio.

Se il catcalling come aggressione e non complimento fosse un’eccezione, del resto, allora non sarebbero così chiaro a ogni donna – come invece lo è – quello che può aver provato e pensato Ruth in quei minuti, la sua scelta di tacere e di affrettarsi verso casa, sperando di diventare invisibile.

La discussione continua nel gruppo privato!
Seguici anche su Google News!
  • Senza palle