Essere donna ed essere una leader al contempo, ancora oggi è un accostamento molto difficile da mandare giù. A tratti appare un freddo ossimoro dove sembra che l’uno debba escludere l’altro e quando avviene pare quasi una forzatura che ha del marcio sotto.

Esserlo, poi, in un ambiente tipicamente dominato da alti tassi di testosterone si rivela ancora più complicato, specie se il team guidato è composto fondamentalmente da uomini pronti a metterti alla gogna per ogni minima défaillance.

Purtroppo, ai giorni nostri, non è socialmente accettabile che sulla plancia di comando di un’azienda salga il “gentil” sesso, è inammissibile pensare che una donna possa e, soprattutto, voglia rinunciare alla maternità per seguire le proprie ambizioni professionali, è quasi osceno che decida di sposare il proprio lavoro invece di un uomo di cui prendersi cura.

È impensabile ammettere che per una donna svegliarsi la mattina e andare a lavorare possa essere quasi una ragione di vita, che nella propria professione risieda la realizzazione personale e che la sua casa sia l’ufficio invece che un caldo e placido focolare domestico dotato di ogni comfort. Parliamoci chiaro, una donna al comando, oggi, è ancora un tabù, hai voglia a parlare di quote rosa (vi giuro che è un’espressione che mi sta proprio sulle balle) o di pari opportunità.

Se sei a capo di un team composto principalmente da uomini la tua parte femminile viene automaticamente freezata, non sono contemplati errori, inciampi, sporcature o virgole fuori posto. Al minimo passo falso si ergono cori e muri contro e giù con considerazioni vecchie come il mondo, maschiliste e offensive allo sfinimento quali “uterina”, “emotiva”, “poco pragmatica” o anche “zoccola”… perché “si sa, se sta lì vuol dire che qualcuno ce l’ha messa ma chissà in che posizione stava lei”.

Potrei continuare all’infinito ma sono convinta che non ce ne sia bisogno, ciascuna di noi nel proprio ambito e indipendentemente dall’afflato profuso verso il proprio lavoro sicuramente ha vissuto situazioni sessiste più o meno palesi nelle quali l’essere donna è stato sicuramente un minus: vale sia per la crescita professionale che per l’adeguamento di stipendio a fine mese. Ma molte di noi non si scompongono e vanno dritte e determinate per la propria strada affrontando con grinta tali difficoltà.

Guardando E poi c’è Katherine di Nisha Ganatra e distribuito dalla Adler Entertainment non ho potuto fare a meno di provare fin dall’inizio un’estrema simpatia per Katherine Newbury (Emma Thompson) – personaggio che ispira tutto tranne che empatia ma che sintetizza appieno la descrizione di donna al potere cui sopra – per almeno quattro motivi: il primo perché spietatamente ambiziosa, innamorata e drogata del proprio lavoro, alla perenne ricerca dell’eccellenza personale e dei collaboratori ed eticamente impeccabile.

Il secondo perché fa parte di quella schiera di donne che, con la massima onestà intellettuale, ha deciso di partorire progetti lavorativi invece che figli. Il terzo perché la sceneggiatura è stata scritta dalla fantastica Mindy Kaling che nel film interpreta Molly e che sarà la prima e unica donna all’interno del team tutto al maschile della terribile Katherine e che dovrà lottare a suo modo per dimostrare che non è solo una quota rosa da trattare come una minoranza ma una risorsa necessaria, una testa pensante e meritevole di stare lì.

L’ultimo motivo che immediatamente ha reso questi due personaggi subito a me cari è che entrambe lavorano nello star system dell’industria televisiva, ambito generalmente governato dagli uomini dove al massimo le donne sono starlette o segretarie di produzione chiamate a portare i caffè. Difficilmente riescono a fare strada rimanendo fedele a se stesse e a ricoprire ruoli da registe o da autrici di serie A. Traguardi raggiunti a suon di sacrifici nella vita reale sia da Emma Thompson che da Mindy Kaling.

Al netto del ritmo davvero divertente e comico della narrazione, contraddistinta da una splendida autoironia e da svariati momenti in cui ciascuna di noi si può identificare, qualche riflessione è venuta fuori, soprattutto osservando il perenne atteggiamento arcigno e scostante della protagonista di contro a quello più entusiastico della sua adepta che ricorda teneramente ciascuna di noi alla prima esperienza lavorativa.

Quanto spessa deve essere la corazza indossata da una donna arrivata all’apice della sua carriera? A quanto della propria femminilità è costretta a rinunciare per mantenere quella posizione? Qual è il prezzo che deve pagare per mantenere sempre una ferrea disciplina senza rendersi conto che atteggiamenti troppo chiusi e severi alla lunga possono essere dei condizionamenti che limitano il suo potenziale e la sua spontaneità?

Quanto una donna al potere deve “mascolinizzarsi” per sentirsi inattaccabile? Quanta fatica fisica e mentale è richiesta per dimostrare che si è meritevoli di quella poltrona? Quanto sforzo per contrastare sempre quella sottile, velata accusa che è moralmente sbagliato comandare per il solo fatto di essere femmina?

Quanto ancora dovremo combattere per affermarci e determinarci anche nel lavoro senza essere costrette a soffocare quelle parti di noi stesse che sarebbero considerate invalidanti e il tallone di Achille della nostra carriera? Quanta educazione da impartire e quanta strada da percorrere per vedere naturalmente riconosciuti il rispetto, il diritto e il dovere delle nostre aspirazioni personali e professionali?

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