Non accetto richieste di amicizia su Facebook da uomini o donne che non conosco, a meno che non arrivino da parte di persone cui sono legata da amicizie comuni e/o interessi professionali evidenti.

Nonostante questa accortezza, più di una volta mi sono trovata a rimuovere contatti di sesso maschile che hanno evidentemente interpretato, per loro univoca e insondabile convinzione, il mio accettare la loro richiesta di amicizia come un generico consenso esteso a ben altro.

Ieri, ironia della sorte dopo aver pubblicato questo articolo, Quei bravi ragazzi che ci uccidono e i panni sporchi da lavare in casa, che parla di linguaggio misogino e maschilista, relativamente alla triste vicenda di Elisa Pomarelli, ricevo la richiesta di amicizia di un collega.

Giornalista, alcune amicizie comuni affidabili, altri contatti illustri in ambito giornalistico da parte sua: desumo che si tratti di un interesse professionale.

Invece questa è la conversazione che, in pochi minuti, si consuma stamattina davanti agli occhi increduli miei e di alcuni colleghi. Per la cronaca il messaggio rimosso, definito dal suo autore “complimento molto forte”, era “Erezione”:

La conversazione si conclude qua. Io non ho risposto, né intendo farlo, ché con gli anni ho imparato a dare valore alle cose che contano, tra cui il mio tempo.

Ma il tempo di scrivere queste parole e farci due riflessioni me le prendo, perché è importante parlare di queste cose, fino allo sfinimento e, come mi ha scritto Irene Facheris, formatrice e presidente di Bossy, che per Roba da Donne tiene la rubrica Sui generi(s) – Qui si parla di parità: “Non è normale”.

Riflessione n.1: su di me e sul senso di colpa

Una prima riflessione, riguarda me che, a 38 anni, un livello culturale medio-alto e la consapevolezza delle discriminazioni e delle tematiche di genere di cui tratto e scrivo ogni giorno, quando ho sottoposto a Irene queste screenshot ho messo le mani avanti dicendole: “Io pirla, perché forse dovevo capire invece di scrivergli ‘non capisco, dimmi'”.

E invece no. Non ero tenuta a capire e condivido, ovviamente con il suo permesso, il messaggio che mi ha inviato Irene Facheris, perché sono certa che faccia bene a tutti ricordarci da che parte sta il problema, senza farsi carico di “sì, ma io avrei potuto/dovuto” se riguarda noi, o di “sì ma lei avrebbe dovuto/ potuto” se riguarda un’altra.

Anzitutto, mi dispiace che tu abbia dovuto leggere una cosa del genere, perdendo del tempo prezioso per altro. E sfido chiunque a pensare che un professionista sconosciuto possa voler scrivere una roba del genere, non credo nessuno avrebbe capito e comunque non è tuo dovere capire.

Circa il comportamento da attuare, qualsiasi reazione andrà bene, il problema è suo. È lui che ha sbagliato, tu non sei obbligata a fare nulla. Ma se vuoi fare qualcosa, chiediti se ti senti più in vena di educarlo o di mandarlo a fare in culo.

Riflessione n.2: l’inganno del consenso e la logica del complimento

Quanto a lui, confesso di aver trattenuto a stento la tentazione di rispondere limitandomi a correggere l’utilizzo del verbo in “Spero non ti sei arrabbiata”, ma blastare la gente non serve alla causa, non migliora me come persona e non educa lui nel suo errore.

Mi limito a osservare come, in tanta ignoranza, lui si sia mosso, solo apparentemente, come una sorta di gentiluomo.
Chiede il permesso per scrivere un “complimento”. Avverte che è forte, scaricando così su di me la responsabilità di autorizzarlo a dirmelo. Richiede di nuovo il consenso.
E poi si scusa, chiama in causa la buona fede.

La tentazione potrebbe essere quella di considerare la conversazione come un flirt frainteso e non come una molestia. Ed è una tentazione pericolosa, perché non lo è. Non c’è nessun segnale verbale o non, con cui io ho autorizzato una tua allusione sessuale.
Non c’è nessun complimento, men che meno forte: c’è una sola parola “erezione” e, spiacente, il fatto che il tuo pene si sia rinvigorito pensandomi non vedo perché dovrebbe essere un  complimento per me e non capisco come tu possa aver pensato fosse tale.

Ricordo un episodio simile, in metro a Milano, quando fui avvicinata da un perfetto sconosciuto che mi chiese di praticargli del sesso orale (ovviamente non usò questa perifrasi per espormi la sua richiesta).
Tirai dritto, decisa a non rispondere e a quel punto lui mi urlò, indignato quasi più di me: “Ehi, ti ho fatto un complimento”.

Sì, bisogna parlarne, fino allo sfinimento di queste cose. Perché è evidente che abbiamo un problema culturale se esistono uomini che pensano sia un complimento comunicare a una sconosciuta la loro fantasia masturbatoria o accordarle il permesso, non richiesto, di praticare loro del sesso orale.

Ed è un problema grave. In cui il “ti chiedo scusa” è solo l’atteggiamento passivo-aggressivo con cui si nasconde la mano dopo aver tirato il sasso. Una strategia ben collaudata della società maschilista, per disinnescare il senso di offesa e molestia nella donna.

“Ho fatto una stupidata”. Direbbe qualcuno.
E tante scuse.

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