Cito aveva appena 22 anni quando, nel 1988, rimase coinvolto in un tragico incidente stradale assieme ad altri tre amici. Cito, fra l’altro, non è il suo nome, ma il nomignolo con cui lo chiamavano le persone care.

Ignazio Okamoto, così si chiamava veramente il ragazzo diventato uomo senza accorgersene. Già, perché dopo quel terribile schianto, sulla A22, all’altezza di Nogarole Rocca, nel veronese, Ignazio “Cito” è caduto in uno stato vegetativo irreversibile, durato per ben 31 anni, fino alla morte, sopraggiunta nell’agosto del 2019 nella casa di Collebeato, paesino di poche anime nella provincia bresciana, in cui i genitori, Marina ed Hector, si sono sempre presi cura di lui.

Ignazio aveva ormai 54 anni, ma non se n’è mai accorto; non si è accorto degli anni che passavano sul suo corpo reso immobile dallo schianto, del tempo che andava avanti mentre lui restava sempre lì, sospeso in uno stato di incoscienza, con la vita e i ricordi che per lui si erano fermati a quando era appena un ragazzo.

Si era salvato, quella notte tra il 19 e il 20 marzo di 31 anni, come altri due amici, mentre il quarto aveva perso la vita dopo il terribile incidente; ma non era mai riuscito a recuperare, a riprendere conoscenza. Dopo due anni passati in un istituto di Lonato sul Garda, Marina ed Hector hanno deciso che dovevano essere loro a occuparsi del primogenito, dato che non poteva passare gli anni che gli restavano in una clinica.

Così se lo sono riportati a casa, lasciando il lavoro per prendersi cura a tempo pieno di lui.

Hector, il papà, messicano di origini giapponesi, ha vegliato sul figlio con pazienza e devozione, facendo fronte alle difficoltà con ogni mezzo.

Non potevamo assumere infermiere e abbiamo scelto di non lasciarlo in una struttura – ha raccontato al CorriereNon eravamo preparati, ma sono diventato cuoco, infermiere e anche fisioterapista per mio figlio.

Mentre invecchiava nella sua immobilità, Cito non ha mai dato segni di ripresa, eppure al padre sembrava che, ogni tanto, una lacrima scendesse dai suoi occhi, chiusi da quel marzo dell’88.

Papà Hector Okamoto (Fonte: web)

Non so dirle quanto si accorgesse di ciò che accadeva attorno al suo letto, ma segni di reazione ne ha sempre avuti. All’inizio lo pregavo di non piangere, gli dicevo ‘Ignazio, ho bisogno che tu sia coraggioso’ e lo è stato“.

E per 31 anni Ignazio ha lottato come ha potuto, con l’attitudine del vero leader per cui, dice ancora Hector, era amato dagli amici. A volte sembrava che sorridesse, spiega papà, sicuramente riusciva a deglutire, tanto che lui e la moglie Marina hanno firmato affinché gli fosse tolta la tracheotomia.

Lo hanno alimentato fino alla fine, senza pensare mai all’idea di lasciarlo andare.

Interrompere le terapie? No, mai avuto dubbi.

Ha detto il signor Okamoto. E la sua è una posizione che, sicuramente, potrebbe riaprire il dibattito sul fine vita e sull’eutanasia, ma la verità è che ciascuno di noi è libero di scegliere secondo le proprie credenze, la propria coscienza e in base a ciò che ritenga meglio per sé e per il proprio caro. Senza che nessuno possa avere il diritto di giudicare o di ritenere una decisione migliore di un’altra.

Proprio pensando alla libertà sacrosanta di scelta in casi delicati come questi, di cui probabilmente si può parlare solo vivendoli in prima persona, Hector ha rivolto un pensiero anche a Beppino Englaro, papà di Eluana, morta nel 2009 dopo 17 anni passati in stato di coma vegetativo, che ha sempre lottato per le ragioni opposte alle sue: ovvero lasciar andare la figlia, sospendendo alimentazione e idratazione forzata e tutte le cure che la tenevano artificialmente in vita.

Noi abbiamo fatto ciò che per noi era naturale, ce lo sentivamo dentro: volevamo che nostro figlio restasse in casa, siamo riusciti ad accudirlo prima con l’aiuto della Caritas, poi con i volontari, ma porto il massimo rispetto per chi ha deciso di percorrere strade diverse.

Ci sono tante storie da raccontare sul fine vita, da Terri Schiavo fino a dj Fabo, passando per Piergiorgio Welby. Ma resta il fatto che nessuno ha il diritto di decretare cosa sia giusto e cosa no, quando si parla di una situazione del genere e soprattutto in assenza di un testamento biologico.

Papà Hector, che nel 2003 aveva ricevuto il Premio Bulloni per l’impegno e la dedizione mostrati nei confronti del figlio, oggi trova persino il coraggio di riderci su, affermando di “non sapere più cosa fare adesso“. E ricorda Cito, con quell’immagine indelebile di lui diciassettenne, la stessa che è stata messa sulla sua tomba. Quella di un ragazzo che aveva studiato ragioneria, con la passione sfrenata per la tecnologia e l’idea di iscriversi all’università, per studiare Economica e Commercio.

Che sapeva che avrebbe dovuto lavorare per permettersi gli studi, perché papà Hector non sarebbe riuscito a pagarli, e che poco prima dell’incidente aveva detto di voler aprire un’attività una volta tornato dal servizio militare. Purtroppo la sua vita è andata diversamente, ma ciò che di sicuro non gli è mai mancato è stato l’amore dei suoi genitori.

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