L’autolesionismo è una forma di disturbo della sfera psichiatrica che spinge chi ne è affetto a infliggersi dolore. Colpisce maggiormente i giovani e gli adolescenti, non ne sono esclusi gli adulti, ma la percentuale di incidenza diminuisce con l’aumento dell’età. I modi in cui gli autolesionisti si procurano dolore sono diversi, ma si possono notare comportamenti tipici: bruciature o tagli, overdose di farmaci o sostanze nocive, come anche alcol, e atteggiamenti legati a disturbi dell’alimentazione come anoressia e bulimia.

Secondo la psicologia, raramente chi soffre di autolesionismo ha tendenze suicide, ma è vittima di forte stress emotivo o un pensiero angosciante difficilmente superabile che cerca di eliminare attraverso il dolore fisico. Nei casi meno gravi è considerato autolesionismo anche l’onicofagia, sintomo iniziale di stress e nervosismo, così come la tricotillomania. Essendo un disturbo psicologico, l’autolesionismo deve essere trattato da specialisti, con la giusta terapia. Vediamo meglio da cosa deriva, come aiutare chi ne è affetto e alcune testimonianze.

Autolesionismo: le cause

L’autolesionismo deriva, secondo gli esperti del comportamento umano, da una situazione di forte stress emotivo, una grande angoscia, o anche un forte senso di colpa. Gli autolesionisti si fanno del male fisicamente in maniera volontaria per la volontà di sentirsi meglio dal punto di vista psicologico: distrarsi dal dolore emotivo, da ricordi penosi, da una forte rabbia o punirsi per insopportabili sensi di colpa. Pertanto le cause possono essere:

  • traumi emotivi, come la perdita di una persona cara, spesso accompagnata da un senso di colpa. Questo può succedere anche in conseguenza a un aborto spontaneo in gravidanza;
  • traumi fisici, specialmente in conseguenza di abuso sessuale o violenza;
  • problemi sociali. Sentirsi sopraffatti da qualcuno, dai genitori, dal partner o dagli insegnanti a scuola, può provocare un senso di angoscia e di colpa, oltre che un grande stress. Anche la difficoltà a relazionarsi con gli altri o sentirsi esclusi per qualcosa di sé, come ad esempio per il proprio orientamento sessuale;
  • problemi psicologici, che aumentano la probabilità di ricorrere a tendenze autolesioniste: molto spesso si tratta di persone che soffrono di depressione, mancanza di fiducia in se stessi, disturbi di personalità.

Autolesionismo in adolescenza

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Fonte: Web

L’autolesionismo è molto diffuso in giovane età, più specificatamente nel periodo dell’adolescenza. Esistono forme di autolesionismo anche nei bambini, ma si manifestano in maniera differente. Secondo il SIBRIC, il portale di informazione e confronto sui comportamenti autolesionistici, tra i 13 e i 22 anni l’incidenza è del 42%, percentuale che cresce tra gli adolescenti con disturbi psicologici o del comportamento e colpisce in numero maggiore le ragazze.

Durante l’adolescenza le relazioni e il rapporto con la vita e la morte si intensificano. Si subisce la perdita dell’io bambino, per passare alla vita adulta, pertanto è un momento molto delicato. Gli adolescenti si procurano del male per due principali motivi. Per sentirsi vivi, riconnettersi alla vita dopo un trauma o abuso subito, che fa perdere il contatto con la realtà, oppure in presenza di rabbia o solitudine, per scaricare la tensione, voler controllare questi sentimenti invece che esserne sopraffatti.

Ferirsi causa due risultati: quello immediato di sollievo e liberazione, seguito dalla colpa e vergogna. Purtroppo però il benessere provato subito dopo la lesione spinge a farlo ancora, cosa che provoca un circolo vizioso, molto simile alla dipendenza. Con l’avvento dei social network e la conseguente volontà di apparire e mostrarsi, l’autolesionismo tra gli adolescenti è diventato un modo anche per condividere il proprio malessere con altre persone nella loro situazione

Autolesionismo nell’età adulta

L’autolesionismo può manifestarsi o continuare anche in età adulta. In questi casi il problema può diventare cronico e di conseguenza portare a risultati più gravi. Come abbiamo detto, l’autolesionista spesso non ha intenzioni suicide, anche se, specialmente in età adulta, il rapporto tra autolesionismo e suicidio diventa più stresso. Le cause possono essere quelle elencate in precedenza, con un’incidenza maggiore in persone vittime di pregiudizi, carcerati, coloro che chiedono asilo politico e i veterani di guerra, oppure chi ha subito un trauma o abuso infantile.

Autolesionismo e psicologia

L’autolesionismo è un comportamento causato da profondi disagi psicologici, quindi il trattamento è di tipo psichiatrico e viene fatto con la collaborazione di specialisti, solitamente psichiatri, psicologi e medici. Le terapie più comunemente usate sono la psicoterapia cognitivo-comportamentale, la psicoterapia familiare e la terapia di gruppo.

Nel primo caso interviene sui motivi all’origine del disturbo per preparare il paziente a riconoscere e a dominare i sentimenti che lo spingono a ferirsi. Mentre le altre terapie servono anche alla famiglia, affinché sappia come essere di supporto, e l’ultima per mettere a confronto persone con problematiche simili, e far comprendere di non essere soli.

Non esistono medicinali specifici contro l’autolesionismo, e i medici preferiscono agire con la terapia. Tuttavia, se si manifesta con problematiche come la depressione o disturbi dell’umore, si può ricorrere ad antidepressivi. La psicoterapia è un percorso che può durare anche per diverso tempo. In ogni caso, è consigliabile a una persona che soffre di autolesionismo di mantenere il rapporto con uno psicologo, diminuendo col tempo le sedute.

Come aiutare un autolesionista: 6 consigli

Scoprire che una persona vicina si infligge dolore non è una cosa semplice da gestire. L’istinto di protezione può avere la meglio e portare a comportamenti drastici e sbagliati per farla smettere. Se non lo confessa direttamente, ci sono segnali che possono insospettire: se porta vestiti grandi o coprenti anche fuori stagione, se è particolarmente irritabile e arrabbiato, se si isola spesso. Vediamo allora cosa fare per aiutare un autolesionista.

1. Avere fiducia

La prima cosa da fare per far sì che la persona, che può essere un amico o un figlio, si apra al dialogo è conquistare la sua fiducia. Non è facile farlo, specialmente perché l’autolesionista si vergogna o prova rabbia nei confronti degli altri e si isola. Pertanto può non essere sufficiente avere la fiducia da soli, ma doversi rivolgere a un aiuto anche da parte di uno psicologo.

2. Non giudicare

L’importante è non colpevolizzare l’autolesionista. Si tratta di un disagio che deriva da problemi profondi, sensazioni di vuoto e malessere che non riescono ad essere messi a tacere, se non con il dolore fisico. Anche lasciarsi andare ad eccessivo allarmismo può portare a conseguenze negative. Meglio invece cercare di non giudicare il comportamento e provare invece a comprenderlo.

3. Scoprire il motivo

Riuscire a parlare in modo chiaro e profondo con un autolesionista, e soprattutto a farlo parlare, è il modo migliore per comprendere il motivo del perché lo fa. Può aiutare a scoprire l’origine del problema e a capire meglio come risolverlo, anche con l’aiuto di un professionista. Ma può anche aiutare l’autolesionista a cercare un modo diverso per stare meglio.

4. Ascoltare

Mentre lui parla, è fondamentale ascoltare, senza per forza dover dire qualcosa. Il miglior consiglio a volte è proprio il silenzio e il supporto, la dimostrazione di voler sapere cosa c’è che non va.

5. Non dare ultimatum

Così come è sbagliato giudicare, anche dare ultimatum e cercare di far smettere qualcuno di farsi del male non porta al risultato sperato. Il metodo di essere duri per “svegliare” qualcuno a cui si tiene non funziona in casi di autolesionismo, così come capita per la depressione. Può provocare invece l’effetto contrario, che si isoli ancora di più nel suo disturbo.

6. Farsi aiutare

Se non si è preparati ad affrontare un compito così delicato, non c’è nessun problema a chiedere aiuto, ed è anzi consigliato. Può venire da persone vicine o ancora meglio affidandosi a un professionista. In questi casi è sempre importante informarsi al meglio.

4 storie di autolesionismo

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Fonte: Web

L’autolesionismo è una condizione diffusa, specialmente tra i giovani, ma anche negli adulti e anziani. Vediamo alcune testimonianze: nonostante siano colpiti anche ragazzi, abbiamo raccolto soprattutto voci femminili, che raccontano una storia che accomuna tutti.

1. Mindy

Mindy ha condiviso la sua storia su HealthyPlace.com. Oggi ha 33 anni, figlia di genitori adottivi, ha 2 figli cresciuti da loro e si definisce un’autolesionista adulta.

Entro ed esco dalla terapia da quando ho 9 anni e mi taglio semi-regolarmente da quando ne ho 12. Mi taglio abbastanza profondamente, tanto da aver avuto bisogno di punti due volte. Tuttavia, ripensando al mio autolesionismo, non è legato al suicidio. Non volevo morire, volevo solo sentire qualcosa, qualsiasi cosa.

Attraverso la terapia, coadiuvata da farmaci somministrati dal suo psichiatra, Mindy oggi si sente meglio, ha una famiglia, un lavoro e una cerchia di amici che la rendono felice per la maggior parte del tempo, ma non è del tutto ancora guarita

Forse in qualche modo sto guarendo… non lo so. L’impulso di tagliarmi e correre fino allo sfinimento e fare altre attività auto distruttive si è placato, ma una volta ogni tanto, riemerge ancora. Quando sento il bisogno di tagliarmi, lo faccio.

2. Helena

La storia di Helena raccontata su Childline.com dimostra come una ragazza adolescente ha iniziato a farsi del male dopo essere stata vittima di bullismo a scuola e abusata da un insegnante.

Sono stata fortemente bullizzata quando ero alle scuole medie, e sono stata presa di mira da un insegnante che inizialmente mi bulleggiava, poi ha iniziato ad abusare sessualmente di me […] è andato avanti per più di un anno. Il professore mi ha portato a credere che non aveva senso che dicessi a qualcuno cosa stava facendo perché io ero una bambina di 11 anni e lui un insegnante.

Dopo un anno ho cambiato scuola e ho iniziato lentamente a farmi degli amici. Stavo iniziando a sentirmi sicura, quando la vulnerabilità si è trasformata in rabbia e mi sono disintegrata. Non mangiavo, mi tagliavo e bruciavo, prendevo pillole, sbattevo la testa contro la testata del letto e fare altre cose. Ero diventata dipendente dal dolore.

L’autolesionismo di Hellen andò avanti per un anno, quando i suoi compagni notarono qualcosa di strano e lei decise di parlare con uno psicologo. Dopo essere ricoverata in ospedale, dove riuscì a parlare di cosa le era successo, il senso di rabbia e tristezza tornò e ricomincio a non mangiare e fu nuovamente ricoverata. Fu allora che decise di riprendere il controllo della propria vita e del proprio corpo

Fu come una lampadina che si è accesa nella mia testa quando ho realizzato che potevo fare davvero quello che volevo: se volevo smettere di tagliarmi potevo farlo, se volevo mangiare potevo. Da allora è iniziata una lenta guarigione.

3. Ashley

Su Huffington Post è invece una mamma a raccontare la sua esperienza quando ha scoperto che la figlia praticava autolesionismo, un campanello d’allarme che le ha fatto comprendere come spesso non si conosce tutta la verità, e c’è bisogno di più informazione.

Ashley raccontò alla dottoressa che si era fatta del male a causa di Anna. Era stata Anna a dirle di tagliarsi, a dirle che meritava di essere punita. “Anna” era l’alter ego di Ashley. Una voce che risuonava nella sua testa. Con orrore scoprii che Anna aveva chiesto ad Ashley di uccidersi già una volta. Mia figlia soffriva di depressione da due anni.

Non saprò mai cosa ha causato la malattia di mia figlia. Quasi certamente ha una predisposizione genetica. Di sicuro ci sono state altre cose che hanno contribuito: Facebook, i suoi impegni, la scuola, gli esami. Qualcosa nella nostra società è terribilmente, terribilmente sbagliato.

4. Una testimonianza anonima

Su SloppyNoodle la testimonianza di una persona rimasta anonima, che ha sofferto di autolesionismo per 7 anni. La prima volta che si è tagliata dice di essersi sentita “bene, sollevata, placata, giustificata“.

Con il passare del tempo, il ‘cutting’ era diventato il mio amico segreto. Potevo dimenticare tutto il dolore che avevo dentro se mi concentravo su causarmi dolore all’esterno. Fingevo che non importava se le persone mi usavano o abusavano di me, perché nessuno poteva ferirmi più di quanto facessi io a me stessa. E credevo davvero di meritare di essere tagliata. Così tanto che, se nessuno mi faceva del male, sentivo che la mia esistenza non era giustificata, così mi tagliavo per non sentirmi in colpa.

Questa persona ha poi trovato sollievo e cura nella fede religiosa, ma soprattutto alla comunità che le è stata vicina e che ha compreso il suo profondo disagio.

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