"Da un mese a un anno per chi intrattiene rapporti sessuali fuori dal matrimonio"

Se astraessimo la storia e la ponessimo in un altrove senza confini, non ci verrebbero in mente una periferia o un piccolo centro provinciale del nostro Paese, dove per i giovani e, soprattutto, per le donne non esistono opportunità che possano metterli in condizione di autodeterminarsi attraverso stimoli e confronti diversi dai modelli tradizionali con cui convivono quotidianamente?

Articolo 490 del codice penale marocchino: “È previsto da un mese a un anno di reclusione per chi intrattiene rapporti sessuali al di fuori del matrimonio.”

Ogni giorno in Marocco partoriscono 150 donne al di fuori del regime matrimoniale.

Così apre e chiude Sophia, il primo lungometraggio della giovane e bravissima Meryem Benm’Barek, vincitrice a Cannes del premio “Un Certain Regard” per la migliore sceneggiatura, insignita del patrocinio di Amnesty International Italia per le tematiche affrontate  e che qui possiamo ascoltare in un’intervista a Roba da Donne a seguito della prima italiana:

In poco più di un’ora e venti minuti di narrazione la regista ci regala uno spaccato della società marocchina asciutto, naturale, diretto su uno dei drammi più consueti che colpisce le donne del suo paese e, di conseguenza, l’intera società che ancora è regolata a livello giuridico e culturale dalle rigide leggi del patriarcato e del maschilismo più becero, un cappio alla gola che finisce per condizionare le vite di tutti quanti.

Soprattutto quelle di chi non ha la possibilità di migliorarsi culturalmente ed economicamente, generando dei mostri di ignoranza e di grettezza che vanno sempre più a detrimento delle donne, oltre a creare una società a doppia velocità dove i dualismi e le dicotomie culturali e sociali sono ancora più evidenti e inquietanti.

Ci teniamo a precisare, però, che pur essendo marocchina l’ambientazione, la discriminazione delle classi sociali più ghettizzate è un tema tristemente universale dei giorni nostri, anche di società “evolute” come quella in cui viviamo noi ma che purtroppo non riesce ancora a imporre all’attenzione dei più, l’uguaglianza dei diritti di cui tutti, indistintamente, devono beneficiare: uomini o donne che siano.

Torniamo al nostro film: tutta la storia inizia durante un pranzo di famiglia durante il quale, Sophia (Maha Alemi), avverte dei forti dolori alla pancia. Sua cugina Lena (Sarah Perles), specializzanda in oncologia, comprende immediatamente che sta per avere un bambino malgrado l’inconsapevolezza di Sophia circa la sua gravidanza.

Con una scusa la porta in ospedale e, forte delle sue conoscenze, riesce a farla partorire eludendo i controlli imposti dalla legge marocchina che prevedono severe verifiche sullo stato civile delle partorienti nei reparti di neonatologia e che colpiscono non solo le donne ma anche medici e infermieri.

Data alla luce una bambina, le due ragazze devono abbandonare immediatamente l’ospedale e mettersi alla ricerca del padre della neonata per evitare il carcere. Si ritrovano nel cuore della notte a Derb Sultan, uno dei quartieri più poveri di Casablanca, alla ricerca di Omar (Hamza Khafif), presunto papà della creatura di cui nessuno sapeva nulla.

In primis egli stesso si trova spiazzato dinanzi a questa situazione che lo pone di fronte a una scelta da cui non può avere scampo: sposare la ragazza per evitare il carcere e, soprattutto, non privare la sua famiglia di origine dell’unico capofamiglia rimasto che, secondo le regole del patriarcato, deve provvedere alle necessità di tutti.

Poco importa di quello che sia successo realmente tra i due ragazzi, dei sentimenti o delle velleità personali, l’aspetto più importante è salvare le apparenze e fare in modo che questa nascita inaspettata possa tramutarsi in un’opportunità per tutti.

Poco importa di come siano andate realmente le cose. La legge, soprattutto quella sociale, non ammette incertezze. Poco importa se si è vittime o carnefici di un sistema che non si può e non si vuole cambiare: conta la soluzione finale che accontenti il decoro sociale e possa nascondere la polvere sotto il tappeto. Poco importa della persona. Vi ricorda qualcosa?

Nel film la contrapposizione tra le differenti classi sociali è ben rappresentata dai due personaggi principali femminili che la regista mette sempre una di fronte all’altra come fossero il positivo e il negativo di un’unica fotografia.

La prima è, chiaramente, Sophia una ventenne senza apparenti aspirazioni e curiosità verso la vita; indossa sempre la djellaba, il vestito tradizionale, e parla male il francese, vero indicatore sociale in Marocco. Vive con i genitori (Nadia Niazi e Faouzi Bensaidi) nel centro di Casablanca, capitale economica del paese, dove le differenze culturali sono ancora più evidenti tra chi può permettersi di guardare a Occidente e di avere una situazione più agiata e chi, invece, è costretto a restare relegato nei “bassi” della città senza ricevere un’adeguata istruzione e aspirare a una posizione sociale migliorativa.

Qui scatta subito una prima riflessione: appartiene solo al Marocco un quadro sociale del genere? Se astraessimo la storia e la ponessimo in un altrove senza confini, non ci verrebbero in mente una periferia o un piccolo centro provinciale del nostro Paese, dove per i giovani e, soprattutto, per le donne non esistono opportunità che possano metterli in condizione di autodeterminarsi attraverso stimoli e confronti diversi dai modelli tradizionali con cui convivono quotidianamente?

A fare da contrappeso a Sophia e al modello di donna che incarna, c’è la cugina Lena, la dottoressa, culturalmente più elevata e dall’indole libera e indipendente; guida, veste alla moda e ha una vita sociale molto più intensa e ricca e, soprattutto, parla perfettamente francese.

Ha una visione più larga e profonda della vita, data anche dagli studi e dalle compagnie che frequenta, ma lo sguardo nei confronti della società in cui vive è paternalista e forse anche un po’ buonista, sicuramente dettato da un atteggiamento altruista e ingenuo che dall’alto della sua posizione privilegiata può permettersi di avere.

Qui scatta la seconda considerazione: possibile che a oggi sia ancora così difficile l’incontro mentale tra due persone che hanno avuto percorsi di vita differenti pur appartenendo alla medesima società e pur respirando la stessa aria?

Chi ha avuto l’opportunità di studiare e di evolversi non dovrebbe avere quell’elasticità cerebrale che consente un avvicinamento più empatico e veloce verso l’altro, invece di imbracciare subito l’arma degli ideali e di lottare solo in nome di questi ultimi, animato più da sentimenti pietistici che da quelli reali?

Sì perché questo è l’atteggiamento di Lena nei confronti della cugina e della sua famiglia per quasi tutta la durata della storia finché una serie di vicende e di colpi di scena non le fanno perdere il candore illusorio dei suoi valori che crollano dinanzi a un mondo, quello delle tradizioni, che non è il suo.

Di contro Sophia si rivela molto più fredda, calcolatrice e consapevole delle dinamiche legate alla sua gravidanza e al conseguente matrimonio: sa che per la legge non ha scampo e sceglie la soluzione più conveniente per tutti, affrancandosi dal ruolo di vittima che lo sguardo di Lena le aveva imposto.

Qui scatta il terzo ragionamento: possiamo continuare a parlare della condizione della donna se prima non andiamo a scardinare e a polverizzare quei maledetti meccanismi della società che, invece di aiutarla a “determinarsi”, la fanno sempre passare come vittima delle situazioni e non contribuiscono minimamente a sfondare quella teca di cristallo nella quale è posta quasi fosse una farfalla da collezione?

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