Nel 1904, l’anno in cui morì nel deserto del Sahara, Isabelle Eberhardt era già letteralmente consumata. A soli ventisette anni, su di lei avevano avuto il sopravvento il massiccio consumo di alcol e droga, ma anche la mancanza di cibo. Nei suoi viaggi aveva portato con sé una pistola, ma non lo spazzolino, ragion per cui aveva finita per perdere i denti. Sopravvissuta a un tentato omicidio diversi anni prima, soffriva di un dolore cronico al braccio. La malaria e forse anche la sifilide fecero il resto: era ancora giovane, certo, ma il suo corpo aveva sofferto molto. Tuttavia servì la forza della Natura per spezzare la sua grande forza di volontà. Ciò che resta della sua mente, ovvero il diario e gli articoli, rimane ancora vivo, come raccontato da un articolo di Paris Review.

Isabelle Eberhardt nacque a Ginevra nel 1877, figlia di Nathalie Eberhardt Moerder e, ufficialmente, di padre ignoto. Secondo gli studiosi, si trattava però di Alexandre Trophimowsky, che era il suo istitutore, oltre che l’amante della madre. Ex prete ortodosso e anarchico, amico di Tolstoy, possedeva una cultura sconfinata e insegnò alla piccola e ai suoi due fratelli tutto ciò che conosceva. Lei crebbe chiamandolo con il suo soprannome, Vava, e molto probabilmente sapeva di essere sua figlia. Da adulta si divertì però a inventare storie sulla propria famiglia: un giorno era figlia di un medico che aveva violentato sua madre, un altro era nata dalla liaison con Arthur Rimbaud.

Cresciuta in un ambiente libero e cosmopolita, Isabelle imparò presto a ribellarsi. Secondo i vicini della villa di campagna in cui abitava, fuori Ginevra, “danzava come una bestiolina selvatica lungo i vialetti del giardino” e “faceva ciò che voleva da mattina a sera”. Leggeva Voltaire, Platone, Turgenev e Zola, oltre a essere poliglotta: non parlava solo francese e russo, ma anche latino, italiano e arabo. Dopo anni passati a fantasticare su terre lontane ed esotiche, a soli diciassette anni decise di voler visitare il Nordafrica e scrisse un racconto immaginando il suo viaggio: era solo l’inizio di una vita da esploratrice. La sua prima fatica letteraria, intitola Visione del Maghreb, venne pubblicata con uno pseudonimo maschile.

La sua abitudine a vestirsi da uomo sorse ancor prima di lasciare il paese. Il padre l’aveva abituata infatti a indossare comodi panni maschili, perché durante le lezioni quotidiane richiedeva non solo l’impegno intellettuale, ma anche quello sportivo. Isabelle amava indossare i pantaloni e in un’occasione si vestì da marinaio e baciò in pubblico l’uomo con cui stava uscendo: sperava così di scandalizzare gli omofobi. Più tardi, nel libro Nel paese delle sabbie, avrebbe spiegato il suo punto di vista.

Nel paese delle sabbie

Nel paese delle sabbie

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Vestita come si conviene ad una ragazza europea, non avrei mai visto niente, non avrei avuto accesso al mondo, poiché la vita esterna sembra essere fatta per l’uomo e non per la donna. E invece mi piace immergermi in un bagno di vita popolare, sentire le ondate di folla scorrere su di me, impregnarmi dei fluidi del popolo. Solo così posseggo una città e ne so ciò che il turista non capirà mai, malgrado tutte le spiegazioni delle sue guide.

Nel maggio 1897 si trasferì con la madre in Algeria sulle tracce del fratello Augustine, arruolato nella Legione straniera. Solo pochi mesi dopo Nathalie morì, lasciando la figlia sola in un paese straniero. Tornata in Svizzera dal padre, vi restò solo due anni, fino alla morte dell’uomo, che la spinse a ritornare in Nordafrica a caccia di avventure. Poco più che ventenne, girò il  Maghreb vestita da arabo o da turco, presentandosi come Si Mahmoud Saadi. Si spostava a cavallo per il deserto, condivideva le tende con gli uomini e talvolta visitava persino i bordelli, spinta da una “curiosità artistica”, come la definiva lei. Sebbene per qualcuno fosse evidente la sua natura femminile, per cortesia non le venne mai rimproverato nulla.

Ad un certo punto considerò l’ipotesi di una vita tranquilla con Slimène Ehnni, un soldato arabo di cui si era follemente innamorata, ma il mondo continuava a chiamarla. I due si sposarono nel 1901 e per l’occasione Isabelle indossò una parrucca lunga per sembrare più femminile. Già convertita alla religione islamica da diversi anni, insieme al compagno di vita e di avventure entrò a far parte della più antica confraternita mistica del mondo islamico, la Quadiryya. Il suo ruolo, però, dava sempre più fastidio, sia agli arabi e che ai francesi, tanto che un uomo di una confraternita avversaria la accoltellò.

Uscita dall’ospedale, non era pronta a fermarsi. Sfruttò le conoscenze del territorio africano per lavorare come reporter e continuare a scrivere, usando sempre il suo nom de plume.

Sapevano bene, grazie all’indiscrezione europea, che si Mahmoud era una donna. Ma, con la bella discrezione araba, si dicevano che questo non li riguardava, che sarebbe stato sconveniente farvi allusione, e continuavano a trattarmi come i primi giorni, come un compagno un po’ istruito e un po’ superiore.

La morte giunse rapida e spaventosa, proprio come ci si aspetterebbe alla fine di un romanzo d’avventura. Dopo un altro ricovero in ospedale, in seguito a febbri malariche, il 21 ottobre 1904 Isabelle Eberhardt decise di uscire, contro il parere contrario dei medici. Voleva incontrare il marito, che non vedeva da diversi mesi, e affittò una casa sulla riva di un fiume in secca da tempo. Quello stesso giorno, però, una massa d’acqua si riversò dalla catena montuosa dell’Atlante verso la pianura circostante e travolse tutto e tutti, compresa Isabelle. Il suo corpo venne trovato giorni dopo e deposto in un cimitero arabo.

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