Se chi insulta sui social non commette un reato

"Quanto si scrive su Facebook non ha portata diffamatoria". Fa discutere l'archiviazione della denuncia di una ragazza offesa sul social network, decisa dalla procura di Roma. E il motivo è presto detto: sui social ci sono persone, non personaggi, che dovrebbero avere la responsabilità di quanto scrivono; ed essere puniti, quando necessario.

Il caso è questo: una ragazza romana denuncia un amico “virtuale” che la definisce “una malata mentale, una bipolare che si imbottisce di psicofarmaci” e figlia di un padre “ubriaco che la maltratta”, e la Procura archivia il caso, ritenendo le accuse infondate perché “quello che si scrive su Facebook non ha portata diffamatoria agli occhi di terzi”.

La gravità di tale decisione, già impugnata dalla ragazza coinvolta e ora nelle mani del gip, è chiaramente visibile agli occhi di chiunque giri, per svago, diletto o per lavoro, sui social, dove è tutt’altro che raro trovarsi spettatori di vere e proprie diatribe online che spesso si trascinano per centinaia di commenti, trascendendo in improperi di ogni tipo, di messaggi subliminali, minacce più o meno fondate, promesse di vendetta e chi più ne ha più ne metta, talvolta nemmeno troppo velate e fatte alla luce del sole come la più innocente delle cose, rivolte a soggetti specifici, e, più in generale, di frasi e parole ingiuriose dirette al personaggio di turno, pubblico o persona “comune” che sia poco importa.

Per questo, che il pm romano non abbia giudicato come diffamatorie le frasi rivolte alla ragazza rappresenta non solo qualcosa di ingiusto – anche seguendo le disposizioni del codice penale in merito – ma anche di potenzialmente deleterio, poiché capace di creare un precedente attraverso cui chiunque, nel prossimo futuro, si sentirà legittimato ad usare – e ad abusare – di parole e parolacce, protetto da quella certa aurea di “impalpabilità” che, agli occhi dei giudici (di questo, almeno), rende il mondo dei social network una specie di universo fatato e parallelo, in cui, come in un qualsiasi, banalissimo gioco di ruolo, ci si può trovare a vestire i panni del proprio avatar virtuale, quello sporco, brutto e cattivo che offende tutti sapendo di restare impunito.

Ha ragione Selvaggia Lucarelli, che ha spiegato perfettamente in un post i motivi per cui questa sentenza di archiviazione non solo è gravemente lesiva per la ragazza che si è vista defraudata del diritto a non sentirsi definire pubblicamente “malata mentale, bipolare, imbottita di psicofarmaci e maltrattata dal padre”, ma anche seriamente rischiosa per tutti i fruitori abituali di Facebook & co. che, se ancora non l’hanno fatto, da oggi potrebbero sentirsi giustificati a sfogare tutte le proprie ire e frustrazioni sul malcapitato di turno, coprendolo di offese e frasi denigratorie.

Ha ragione Selvaggia quando, commentando quella parte della decisione del giudice che recita “Le espressioni denigratorie costituiscono un modo efficace di sfogare la propria rabbia e godono di scarsa credibilità” dice

Capito!? Se uno vi umilia o insulta o denigra su FB, chiudete un occhio, si sta solo sfogando. Meglio un vaffanculo troia su FB che farsi 30 minuti di jogging. Manco devi uscire di casa che ora è inverno e fa pure freddo.

Quanto può essere nocivo, per una società già fin troppo inebriata da quell’illusione di onnipotenza che la realtà virtuale fornisce, in cui non serve più neppure sporcarsi le mani per litigare con qualcuno, né avere il coraggio di affrontarlo faccia a faccia, far passare il messaggio che le frasi denigratorie rappresentino un modo per “sfogare la rabbia, privo di credibilità”?

Se la battaglia che si sta combattendo è quella per eliminare il cyber bullismo, il bodyshaming e tutta quella serie di odiosi “vizietti” che dallo spazio fisico si sono spostati a quello, ben più comodo, del Web, con questa sentenza allora c’è da fare tabula rasa e da ripartire completamente da zero.

Senza dimenticare che la decisione della Procura romana, come ricorda anche la Lucarelli, pecca anche da punti di vista che attingono principalmente proprio alla sfera legale.

Il codice penale dice che la diffamazione semplice è un’offesa alla reputazione altrui. La diffamazione è AGGRAVATA quando viene attraverso la stampa e i social e quando include l’attribuzione di un fatto. Quindi se io dico che sei una stronza a qualcuno è diffamazione. Se io SCRIVO sui social che sei una stronza e che spacci cocaina, la diffamazione è più grave. Nel caso di questa donna la diffamazione era dunque doppiamente aggravata. (bipolare che si imbottisce di psicofarmaci con una madre che la maltratta etc…)

È errato, quindi, sostenere, come recita la motivazione principale della decisione, che “quanto si scrive su Facebook non ha portata diffamatoria agli occhi di terzi”. Ne ha eccome, anzi il reato è addirittura raddoppiato, se commesso sui social.

Andiamo avanti: un’altra parte della decisione recita “i social sono popolati dai soggetti più disparati che esternano il proprio pensiero senza l’autorevolezza delle testate giornalistiche e di fonti accreditate”. Altra affermazione aberrante, che non solo dimostra quanto lontana dalla realtà sia la percezione di chi ha emesso la decisione rispetto ai social (o quanto si cerchi di fingere ignoranza in merito, chi lo sa), ma ancora una volta legittima potenzialmente chi ha i suoi “conti in sospeso da risolvere” a usare Facebook, Instagram o qualsiasi altro social come lo strumento attraverso cui vomitare insulti e offese sul soggetto della loro rabbia, coperti da quell’idea, incredibile e assurda al tempo stesso, che siccome si tratta di realtà virtuale allora tutto questo non stia accadendo davvero, che ci se ne possa lavare le mani appellandosi alla libertà di pensiero e opinione e che, in fondo, è “solo un social”. Peccato, come ricorda ancora la Lucarelli, che quei soggetti siano

 […] gli stessi cittadini che popolano gli autobus, i cinema, le strade e pure i tribunali. Non esiste un ‘popolo social’. Noi che scriviamo su FB non siamo puffi o rettiliani. Siamo i cittadini più disparati, sì. E come tali dobbiamo rispettare la legge, non avere attenuanti se scriviamo puttana su FB anziché dirlo di persona al bar.

Senza contare che è oltremodo fuorviante usare l’espressione “senza l’autorevolezza delle testate giornalistiche e di fonti accreditate”; perché, se è vero che il giornalista deve prestare un’estrema cura a quanto scrive, assicurarsi della veridicità delle proprie fonti e spesso stare in bilico fra la verità e il rischio di diffamazione, è assolutamente scorretto dare l’idea che i cittadini che non svolgono questa professione siano invece liberi di esprimersi come meglio credono nei confronti di altre persone, pubbliche o “comuni” che siano, solo perché privi “dell’autorevolezza”. Insomma, che si lavori per Repubblica o si faccia il maestro di scuola, nessuno dovrebbe avere il diritto di dare dello stronzo a un altro via social, dormendo beato fra due cuscini nella consapevolezza di restare impunito.

Infine, e questo è il punto più importante del discorso della Lucarelli:

Seguendo la logica di questo pm, quando qualcuno si suicida per l’odio ricevuto sui social, non c’è colpevole. È un precedente piuttosto scivoloso, perché a questo punto la colpa diventa non di chi aggredisce verbalmente o diffama, ma di chi non capisce lo sfogo altrui. Di chi, appunto, prende troppo sul serio le cose che arrivano dal pungiball virtuale su cui tutti possiamo dare pugni per poi lanciare merda a piacimento.

Eppure, di persone che si sono tolte la vita perché la macchina del fango virtuale si era messa in moto, relegandole al ruolo di vittima della pubblica gogna, ce ne sono eccome, da Tiziana Cantone a Michela Deriu, passando per tutti quei ragazzi e ragazze che hanno scelto di morire per non dover sopportare le umiliazioni continue di sentirsi chiamare “grassona, frocio, cesso”.

Tiziana, Michela e tutti gli altri sono morti sul serio, non è stato il loro avatar virtuale a morire, ma loro. Perché sui social non ci sono personaggi, ma persone, e, per quanto spesso possano nascondersi dietro un profilo finto, un nome fittizio, una foto falsa, sono le loro teste pensanti, quelle che corrono veloci sulla tastiera del pc o digitano le parole sullo schermo dello smartphone, a partorire quelle frasi. E, casomai non fosse abbastanza chiaro, no, non basta premere il tasto OFF per resettare tutto.

 

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