Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per un pezzo di pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.

Primo Levi, nel suo capolavoro Se questo è un uomo, descriveva l’orrore dei campi di concentramento nazisti. Ci riusciva senza il bisogno di evocare scene di morte e di terrore, ma usando parole come “pace” o “forza di ricordare”, parlando dei capelli di cui i prigionieri erano privati, del lavoro, della fame.

Così, senza la necessità di raccontare i dettagli raccapriccianti delle camere a gas, dello sterminio, degli esperimenti di eugenetica, Levi ha saputo portare noi tutti, per un momento, con la mente, con l’immaginazione, a quei giorni, in quei luoghi, nella pelle delle vittime.

Oggi, invece, ci troviamo di fronte a qualcosa di diverso; a un’immagine, talmente forte da non necessitare né di parole né di immaginazione. Così vera, e brutale, da far male.

Chi la pubblica è il New York Times, che sceglie, in un lungo articolo-inchiesta sulla guerra nello Yemen che va avanti dal 2015, di mostrare il volto, e il corpo scarnificato, di Amal, 7 anni.

Le chiamano “vittime collaterali”, quelle come lei; perché non sono direttamente coinvolte nel conflitto, perché non imbracciano i fucili per sparare ai nemici, ma pagano il prezzo, altissimo, di quello che ogni guerra porta come indesiderato dono: la fame, la carestia, che colpisce i civili indistintamente, senza risparmiare nessuno, neppure i bambini come lei.

Declan Walsh firma il pezzo, il premio Pulitzer Tyler Hicks le immagini, terrificanti, di quel pezzo di mondo dimenticato da Dio, Allah, o in qualunque altro modo si desideri chiamare; e Amal, con le sue braccia scheletriche, le ossa sul petto, gli occhi che d’improvviso si fanno enormi su quel visino scavato ed emaciato, diventa il simbolo dell’orrore. Lei non ce l’ha fatta, è morta di stenti.

Per cui è giusto chiedersi “Se questa è una bambina”; una creatura che non ha più pelle, solo ossa. Che ha lo sguardo vacuo e assente di chi ha già visto e invece, alla sua età, non avrebbe dovuto vedere proprio niente. Che tiene le mani serrate, a pugno, sul cuore, come se volesse difenderlo, come se non volesse farsi portare via l’unica cosa che ancora la rendeva umana, viva.

Si può discutere, e molti lo stanno già facendo, sull’opportunità del New York Times di pubblicare una simile immagine; i social hanno già deciso di bannarla, rimuovendola dagli account di chiunque avesse scelto di condividerla, ritenendo che violi “gli standard della community”.

Fonte: valigiablu.it

Si vuol preservare la serenità mentale di quella parte di mondo che al contrario lotta contro l’obesità infantile; si vuol provare a mascherare, a coprire con un velo di finto puritanesimo, quella che, piaccia o no, è un realtà. Perché provare empatia e solidarietà, si sa, è d’obbligo, ma vedere con i propri occhi, è tutt’altro paio di maniche.

Invece è coraggiosa la scelta del Times di mostrare, di far vedere; perché lo scempio che i civili dello Yemen stanno subendo, senza interruzioni, senza pause, senza nessun intervallo tra primo e secondo tempo, è qualcosa che ha bisogno di essere visto perché se ne prenda coscienza. Perché qui le parole da sole non bastano, perché qui ci vuole il fegato per realizzare davvero quel che sta succedendo a una manciata di chilometri da noi e dalle nostre belle vite.

Perché il New York Times ha pubblicato la foto

Molti, come detto, si sono interrogati sull’opportunità di pubblicare una foto simile, che sicuramente smuove le coscienze ma al tempo stesso inquieta, e sbatte in faccia, senza edulcorazioni di sorta né censure, tutta la potenza di un disastro le cui vittime sono, come accade in ogni conflitto, i civili, inclusi i bambini. Ma il giornale statunitense ha chiaramente spiegato i motivi per cui ha scelto di mostrare al mondo lo sguardo e il corpicino esanime di Amal, in una lettera pubblicata da Eric Nagourney e Michael Slackman, che hanno chiarito quanto sia importante il ruolo di testimonianza da parte dei media per portare il mondo a conoscenza di una tragedia che volutamente si cerca di ignorare.

I giornalisti che lavorano nelle zone di guerra, incluso il nostro fotografo Tyler Hicks, rischiano la vita per scattare immagini che a volte possono essere difficili da guardare – ha dichiarato David Furst, International Picture Editor del New York Times – E sentivamo che avremmo fatto un torto alle vittime di questa guerra pubblicando immagini selezionate che non riflettessero appieno la loro sofferenza.

La tragedia nello Yemen, continua l’articolo del NYT, non è nata da un disastro naturale, “ma è una vera e propria crisi provocata dai leader di altri paesi che sono disposti a far patire sofferenze straordinarie ai civili per far avanzare le loro agende politiche. Eppure in qualche modo la vasta catastrofe non è riuscita a catturare l’attenzione del mondo tanto quanto l’ omicidio di un solo uomo, l’editorialista del Washington Post Jamal Khashoggi, nel consolato saudita di Istanbul. La storia dello Yemen e tutta la sua sofferenza deve essere raccontata, e in modo potente quanto la scrittura di Declan, non può essere raccontata solo a parole”.

I dati di una guerra di cui nessuno parla

Nello Yemen la guerra infuria dal 2015, scatenata dalle fazioni che dichiarano di costituire il legittimo governo dello stato, con i rispettivi alleati. Gli Huthi controllano la capitale Sana’a e sono alleate con le forze fedeli all’ex presidente Ali Abdullah Saleh, mentre le forze leali al governo di Abd Rabbuh Mansur Hadi hanno sede ad Aden; nel conflitto anche l’Arabia Saudita – direttamente –  e l’Iran, in modo indiretto, giocano un ruolo determinante; senza contare le zone del paese controllate dall’Isis e da Al-Qa’ida.

Il blocco all’arrivo di qualsiasi rifornimento e medicinale sta lentamente conducendo circa 7 milioni di yemeniti alla fame, mentre l’epidemia di colera sviluppatasi ha portato, solo negli ultimi tre mesi del 2017, alla morte di 2000 persone.

Indubbiamente il mese di agosto del 2018 è stato quello più sanguinoso dell’intero anno: secondo i rapporti raccolti dalle Nazioni Unite, infatti, solo nei primi nove giorni del mese sono morti 450 civili, di cui 131 bambini, numeri che, al 31 agosto, sono saliti a 981, tra cui oltre 300 bambini. Come spesso accade nei conflitti, però, stabilire una cifra precisa non è possibile, e i numeri potrebbero, purtroppo, essere molto più alti.

Fra gli attacchi verificatisi in agosto, quello a un mercato che è costato la vita a 41 persone, di cui 6 bambini, e a un ospedale della città. Il 9 agosto un bombardamento nel nord del paese ha colpito un altro mercato e un autobus pieno di bambini, causando 46 morti e 100 feriti. Le vittime erano principalmente ragazzi sotto i 13 anni. Altri 22 bambini e 4 donne sono rimasti uccisi da un attacco aereo.

Chi non muore sotto le bombe potrebbe farlo per il colera, epidemia che si è sviluppata nel paese a causa delle scarsissime condizioni igienico-sanitarie. I danni alle infrastrutture idriche e sanitarie a Hodeidah stanno lasciando migliaia di persone senza acqua e senza assistenza medica.

Le vittime civili totali sono stimate dall’ONU, tra il 26 marzo 2015 e il 9 agosto 2018, in 17.062, mentre tutte le parti impegnate nel conflitto stanno commettendo gravissime violazioni del diritto umanitario internazionale.

Ci sono quasi due milioni di bambini malnutriti nello Yemen, di cui 400.000 sono considerati gravemente malati. E la cifra, purtroppo, è destinata ad aumentare nei prossimi mesi.

Le voci della tragedia

Ali al-Hajaji, un figlio morto per l’epidemia di fame, e con un altro di appena 3 anni, in ospedale per lo stesso motivo, ha raccontato al Times la situazione critica che si vive nel paese per reperire cibo e acqua. Non è la mancanza di forniture il problema, ma il costo: i prezzi, nello Yemen, salgono troppo velocemente.

Riesco a malapena a comprare un pezzo di pane raffermo – ha spiegato – Ecco perché i miei figli muoiono davanti ai miei occhi.

Hajaji, cinque figli sotto i 7 anni, ha assistito con impotenza alla perdita di valore del riyal nell’ultimo anno, trovandosi improvvisamente di fronte a spese raddoppiate rispetto a prima del conflitto; alcuni abitanti del suo villaggio sono stati costretti a vendere i propri beni, cammelli e terra principalmente, ma per lui, che vive con la famiglia in una sola stanza in un casa di fango, questa possibilità non esiste. Inizialmente è la generosità dei vicini a permettergli di andare avanti, ma poi Shaadi, il suo primogenito, si ammalò gravemente, e Hajaji non aveva neppure i soldi per portarlo all’ospedale, dato che il prezzo del carburante era aumentato del 50% rispetto all’anno precedente. Così, una mattina di fine settembre, Hajaji entrò in casa per trovare Shaadi silenzioso e immobile, con una sfumatura gialla sulla pelle. “Sapevo che era morto”, ha detto.

Shaadi è stato il primo nel villaggio a morire di fame.

Quando è stato Shaher ad ammalarsi, Hajaji era determinato a fare qualcosa: ha trasportato il figlio lungo il sentiero di pietra in una clinica, che però non era attrezzata per aiutarlo; così, la sua famiglia ha preso in prestito 16 dollari per il viaggio all’ospedale di Hajjah.

Tutti i grandi paesi dicono che si combattono a vicenda nello Yemen. Ma ci sembra che stiano combattendo la povera gente.

Nell’ospedale Sabeen, di Sana’a, la dottoressa Huda Rajumi si occupa dei bambini più gravemente malnutriti del Paese. Ma anche la sua famiglia si trova in condizioni molto critiche, dato che la classe media yemenita è collassata: lei ha ricevuto un solo mese di stipendio nell’ultimo anno, suo marito, soldato in pensione, non sta più ricevendo nulla; lei ha rinunciato ai piccoli vezzi quotidiani come frutta, carne e taxi per riuscire ad andare avanti. Ma, dice, la situazione si sta facendo sempre più drammatica per tutti

A settembre, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha pensato di ideare un ponte aereo umanitario per consentire agli yemeniti malati di cancro o in pericolo di vita di volare in Egitto.

Tra quelli in lista d’attesa c’è Maimoona Naji, una ragazza di 16 anni con un tumore alla gamba sinistra. In un ostello di Sana’a, suo padre, Ali Naji, ha dichiarato di aver ottenuto visti e denaro per recarsi in India per un trattamento di emergenza. Le loro speranze sono aumentate quando è stato detto loro che Maimoona sarebbe stata tra le prime a salire sull’aereo umanitario, ma l’accordo è tuttora in stallo, bloccato dal governo yemenita, e tutti i malati, compresa la ragazza, sono quindi in stallo.

Prima ci hanno detto ‘la prossima settimana, la prossima settimana’ – ha detto il signor Naji, – Poi hanno detto no. Dov’è l’umanità in questo? Cosa abbiamo fatto per meritarci questo?

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