L’ordine, la disciplina, il rispetto delle regole. La vita del soldato non è semplice, ma quella di chi si arruola nell’esercito nordcoreano lo è ancora meno. E non solo perché il governo dittatoriale di Kim Jong-un ha praticamente chiuso gli abitanti del paese in una sorta di ostracismo rispetto al resto del mondo e di autarchia totale da cui uscire è praticamente impossibile, né perché l’atteggiamento del leader maximo assume, rispetto alle questioni di politica estera, tratti via via sempre più bellicosi e ostili. Il rigore e l’essenzialità – per usare degli eufemismi – imposti alla popolazione sono, naturalmente, le parole d’ordine anche per i soldati al servizio di Kim, indipendentemente che siano uomini o donne.

Stessi allenamenti rigidissimi, stesse esercitazioni stremanti, stesse condizioni durante la vita in caserma, senza nessuna eccezione. La vita nei suoi dieci anni da soldatessa l’ha raccontata alla Bbc Lee So Yeon, e il suo è un racconto che non è fatto solo di parità tra sessi – anche se nella sua accezione più negativa – ma soprattutto di violenze, di abusi, di stupri e di degrado umano.

La sua testimonianza, raccolta in Italia dal Corriere, torna indietro nel tempo a quando lei è appena diciassettenne, figlia di un professore universitario, e decide, volontariamente, di arruolarsi nell’esercito, in modo da guadagnare qualcosa per la sua famiglia. Il microcosmo cui si trova di fronte una volta entrata a far parte del corpo femminile è fatto di condizioni durissime, quasi inaccettabili e al limite della dignità umana.

Lei e le compagne d’armi dormivano su letti a castello, dodici donne in ciascuna stanza, il materasso di paglia di riso che le faceva sudare moltissimo e la foto dei leader appesa sopra le loro teste, Kim Il-sung  e Kim Jong-un. Stessa situazione dei commilitoni uomini.

Non c’era acqua calda – racconta Lee, oggi quarantunenne – il tubo da cui arrivava l’acqua per fare la doccia arrivava direttamente da un ruscello di montagna. A volte attraverso il tubo arrivavano anche rane e serpenti“.

La prima conseguenza di quelle condizioni degradanti, per molte, è stata la scomparsa delle mestruazioni, dovuta allo stress ma, spesso, anche alla malnutrizione. Eppure, Lee afferma che questo rappresentava una vera e propria fortuna per loro, perché le poche che ancora avevano il ciclo mestruale erano costrette a “riutilizzare gli assorbenti, che non venivano forniti dall’esercito. Panni di cotone venivano riutilizzati e lavati“.

Ma l’incubo che ancora oggi, nonostante siano passati dieci anni da quando ha lasciato l’esercito, Lee ricorda chiaramente riguarda le violenze subite, non da lei, ma evidenti dai racconti di altre donne del suo plotone.

I bagni erano spesso in comune, per questo le donne erano esposte al rischio di subire aggressioni e violenze. Il comandante della compagnia rimaneva nelle stanze della truppa per ore e violentava le donne che erano sotto il suo comando“. Il reato di violenza sessuale nell’esercito è punito con la condanna fino a sette anni di reclusione, ma non è complicato comprendere perché gli ufficiali e i soldati molto spesso (quasi sempre) non paghino: nessuno vuole denunciare, hanno troppa paura.

Lee So Yeon ha vissuto questa vita infernale fino ai suoi 28 anni, poi ha lasciato, e ha deciso di fuggire verso Seul, dato che aveva sempre prestato servizio proprio nei pressi del confine con la vicina Corea del Sud, più liberale. È stata arrestata e imprigionata per un anno e, una volta uscita, la sua storia assume quasi la connotazione della trama di un thriller: Lee ha infatti attraversato a nuoto un pezzo del fiume Tumen, fino al confine cinese, dove un passeur (chi organizza proprio i viaggi di passeggeri clandestini) le ha finalmente permesso di raggiungere la capitale della Corea del Sud. Dove ha ricominciato una nuova vita, ma dove non potrà nemmeno dimenticare mai quella vecchia.

 

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