Dimenticatevi pure le Desperate Housewives di Wisteria Lane, contente di dedicarsi esclusivamente alla cura della casa e della famiglia; c’è un paese, in Europa, dove il termine “casalinga” è vissuto in maniera estremamente negativa, e con una connotazione dispregiativa, come fosse un declassamento della donna.

Stop alla tradizionale e romantica visione della mamma – moglie angelo del focolare domestico, in Svezia nessuna donna vuole essere considerata una housewife, ovvero una persona che si occupa, appunto, del lavoro a casa, dei figli e delle faccende domestiche; sarà anche perché nel paese scandinavo, effettivamente, le donne che ricoprono questo ruolo sono davvero pochissime, a differenza, ad esempio, del nostro, dove la percentuale di casalinghe, pur essendo diminuita notevolmente rispetto agli anni passati, rimane comunque importante.

Ma è davvero così degradante essere considerate una casalinga? Possibile che proprio le donne siano le più critiche verso una categoria che comunque resta importantissima nell’economia familiare e, diciamoci la verità, pure troppo spesso sottovalutata (tanto che più di una volta si è proposto di stipendiare le donne che svolgono i lavori di casa)? Possibile che trovino umiliante una definizione che, comunque, comprende donne con motivazioni e situazioni di vita diverse?

Sono varie, in effetti, le ragioni per cui una donna può decidere di fare la casalinga; può essere per scelta, certo, ma anche perché non riesce a trovare un’occupazione o è stata lasciata a casa dal lavoro. Le più giovani possono farlo per occuparsi a tempo pieno dei figli, dato che badare loro in prima persona può essere più conveniente che assumere una baby sitter per farlo, le più mature perché ancorate a quella visione tradizionale della famiglia.

Qualunque siano i motivi, però, la questione principale è proprio quella che indaga le ragioni per cui le donne svedesi trovino offensivo essere appellate come “casalinghe”.

Questione di cultura, di contesto ambientale, di situazioni economiche, ma c’è anche dell’altro?

Non chiamarmi casalinga

Fonte: web

Nelle ricerche generali che riguardano i paesi scandinavi, in particolare Svezia e Danimarca, le donne che rientrano nel termine di housemaker, lavoratrice in casa, sono addirittura al di sotto dell’1%. E, anche qualora siano a casa, lo sono solo per un periodo temporaneo, come spiega a Vanity Fair la svedese Lina Burnelius; è un lavoro pro tempore, che non dura mai una vita, e, se ad esempio la condizione momentanea di casalinga dipende dalla nascita di un figlio, le donne condividono equamente l’impegno con il marito.

Noi ci scherziamo: tu hai fatto l’estate a casa, lui l’autunno.

Insomma, trovare una donna che scelga di fare la casalinga a tempo pieno è praticamente impossibile, tanto che la categoria, in Svezia, può quasi essere considerata a rischio “di estinzione”.

Certo, probabilmente questi dati sono il frutto, come abbiamo accennato poc’anzi, di situazioni economiche e sociali specifiche, dove servizi, infrastrutture e assistenza statale sono garantite anche per le neo mamme, in modo che gli oneri derivanti dal neonato non ricadano esclusivamente sulle sue spalle, o per le donne in generale, affinché abbiano le medesime opportunità lavorative dei “colleghi” uomini.

Situazione ben diversa in Italia, dove, con fasce di età differenti, le casalinghe rappresentano ancora un gruppo piuttosto nutrito.

7 milioni di casalinghe in Italia

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La professoressa Annalisa Tonarelli, che insegna al dipartimento di scienze politiche e sociali dell’Università di Firenze, snocciola numeri diversi per quanto riguarda le lavoratrici di casa. In generale sono 7 milioni 338 mila le casalinghe italiane, secondo i dati Istat raccolti nel 2016, vale a dire 518 mila in meno rispetto a dieci anni prima, con un’età media piuttosto elevata, stimata in 60 anni. Ma c’è da fare un distinguo: le casalinghe dichiarate fino ai 34 anni sono circa l’8,5%, e il motivo per cui svolgono questo tipo di lavoro ha attinenza, come abbiamo già accennato, soprattutto a una neo maternità, o a un’impossibilità di inserimento nel mondo del lavoro. “Si potrebbero definire casalinghe obbligate – spiega Tonarelli – Molte sono casalinghe per obbligo, perché il mondo del lavoro non le ha riaccolte dopo la maternità o perché economicamente conveniva stare a casa con i figli piuttosto che pagare qualcuno per seguirli“.

Anche fra loro, però, c’è chi storce il naso all’idea di essere chiamata casalinga.

L’etichetta è sostanzialmente rifiutata nelle donne adulte delle ultime generazioni, ciò non toglie però che un numero consistente di donne si ritrova nella categoria casalinghe all’interno delle indagini statistiche“.

7 milioni, dicevamo, cui

… vanno aggiunte quelle inattive sul mercato del lavoro, ma che non si identificano come casalinghe, e si arriva a 11 milioni”.

Motivazioni diverse per le over 65, che sono stimate in 3 milioni circa. Per loro non vale il discorso figli o mancanza di loro, ma questioni che attengono più a una sfera di valori d’altri tempi, dove l’emancipazione lavorativa femminile non era strettamente necessaria e a provvedere ai bisogni della famiglia pensava il padre.

Queste ultime possono essere considerate il naturale prolungamento di un mondo in cui alle figlie femmine veniva insegnato soprattutto a essere una brava “donna di casa”. Antiquato, forse, come concetto, ma comunque non meritevole di essere giudicato o etichettato come “umiliante”, poiché frutto di tutto un altro insieme di valori che, comunque, nella cultura italiana dimostrano di essere leggermente modificati, ma sempre ben radicati.

Valori condivisi

Fonte: web

Secondo i dati registrati dall’Istat nel 73% dei casi le donne sotto i 34 anni non cercano un lavoro retribuito per motivi familiari, principalmente per seguire i figli oppure i genitori malati.

Questo perché il valore del ruolo materno a casa, dell’importanza della presenza della donna, non è cambiato nel tempo, come sottolinea a Vanity Fair anche la professoressa Tonarelli: “La considerazione che si ha della maternità, del lavoro di cura, dell’importanza della presenza della madre a casa non è cambiata nel tempo: è un valore condiviso da uomini e donne“.

C’è un rischio, però, specifica la docente: questi dati non devono essere la scusa per far pensare che non sia necessario investire in attività e infrastrutture volte proprio ad alleggerire il compito della donna di casa.

Questi dati rischiano  di diventare l’elemento che giustifica lo scarso investimento nei servizi per l’infanzia o nel lavoro al femminile. Da noi esiste il concetto del ‘non trovo, quindi sto a casa’, in altri paesi non è considerata una scelta dignitosa.

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