Storia di Czeslawa Kwoka e delle ragazzine fotografate prima di essere uccise

Storia di Czeslawa Kwoka e delle ragazzine fotografate prima di essere uccise
Marina Amaral/ Museo di Auschwtiz
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Di tre quarti, poi davanti, quindi di profilo.

Così per tutti, uomini, donne, bambini. Davanti all’obiettivo del fotografo passavano tutti i deportati di Auschwitz, in una lunga sequela di corpi senza ormai più un’anima, incastrati in una prigione a righe grigie e blu, quelle della divisa che li rendeva tutti uguali, tutti identici, differenziati solo da quel numero, che li marchiava a fuoco come bestiame da macello.

Tutti gli untermensch, gli appartenenti alle razze inferiori, sedevano sul freddo sgabello del kapo, l’ebreo chiamato dai nazisti a comandare sugli altri per lasciarsi immortalare, nelle tre posizioni, fronte, profilo, tre quarti, come detenuti, come se i criminali, in quella situazione, fossero loro. Anche solo se erano bambini o poco più, molti di loro, spediti lì con la sola colpa di cognomi o alberi genealogici che avessero poco o nulla di “ariano”. Sedevano sul cubo di legno dello studio fotografico, fatto girare su se stesso da un pedale azionato dal fotografo stesso, forse per l’ultima volta, prima di essere spediti nelle camere a gas o di subire qualche altra inenarrabile atrocità.

Di molti di loro oggi non ci restano che quelle immagini, su cui sono impresse, per sempre, la paura, lo smarrimento, l’inconsapevolezza di un destino che non si era scelto, che non si meritava, ma contro cui non si poteva intervenire. Della follia nazista, dei corpi innocenti ammassati come mucchi d’ossa che non hanno mai avuto una vita, un nome, una famiglia, delle stragi quotidiane compiute in nome delle allucinanti teorie dell’Übermensch oggi portiamo lo strascico di una ferita mai davvero sanata, incapace di trovare spiegazioni ma capace invece di essere ricondotta allo stato di “realtà”, e non di assurda fantasia, dalle storie, dalle testimonianze di chi c’era e ha visto, di chi ha visto e ancora oggi può raccontarlo.

E chi invece da quell’orrore non è mai uscito, come Czeslawa e la mamma Katarzyna, come Rozalia, Krystyna e moltissimi altri ancora, ancora oggi però riesce a essere ricordato, proprio grazie a quelle foto. Molte di loro sono conservate al Museo di Auschwitz, tutte scattate dal medesimo fotografo, Wilhelm Brasse, anche lui prigioniero, con il numero 3444. E, per farle rimanere ancora più vivide, per far sì che la potenza della dolorosa storia che raccontano quei volti spauriti colpisca ancora adesso esattamente come allora, oggi, dopo 75 anni, l’artista brasiliana Marina Amaral ha colorato quel volto, il volto di Czeslawa. Guardarla così, con il fazzoletto in testa e gli occhi grandi e trasparenti, ricordare le parole che Brasse usò parlando di lei, come spiega Repubblica, in un documentario del 2005, mostrando le foto, “una ragazza terrorizzata che non capiva che cosa le stesse accadendo e non parlava tedesco, che fu picchiata con un bastone da una kapo di fronte ai suoi occhi“, scrive il quotidiano, fa male.  Tremendamente male, perché fa avvertire a fior di pelle la brutalità di una tragedia che ha piegato ogni istinto di umanità, nitida e terribile ancora adesso, come allora.

Oggi anche l’Auschwtiz Museum ha dedicato un tweet al lavoro di Marina Amaral, in occasione dell’anniversario della morte di Czeslawa, uccisa nel campo di sterminio il 12 marzo 1943.

Lo ha fatto perché non si ricorda mai abbastanza, perché, nonostante se ne parli, se ne legga, lo si insegni a scuola, troppo poco ancora si riesce a comprendere cosa fu davvero il nazismo. Troppo poco si avverte il dolore di ogni persona strappata alla luce per essere gettata nel buio di un campo di concentramento, per un giorno, un mese, un anno, o per non fare mai più ritorno. Troppo poco si ha la concezione di quanto tutto ciò sia stato reale.

E, se è vero, per citare un aforisma di Alfred Stieglitz, che

Nella fotografia c’è una realtà così sottile che diventa più reale della realtà

Allora gli occhi di Czeslawa, in quell’immagine, non hanno davvero bisogno di altre parole.