
Ciò che il Coronavirus può insegnarci nell'arte politica di Johanna Berghorn
Abbiamo fatto una chiacchierata con la fotografa berlinese Johanna Berghorn, che usa la sua arte per parlare di inclusività e fare attivismo politico.

Abbiamo fatto una chiacchierata con la fotografa berlinese Johanna Berghorn, che usa la sua arte per parlare di inclusività e fare attivismo politico.
Johanna Berghorn è un’artista berlinese che parla, nelle sue fotografie, di inclusività, femminismo e, in tempi recenti, sta seguendo da vicino il fortissimo impatto sociale ed economico della pandemia di Coronavirus, tanto da sostenere la petizione Leave No One Behind, per ricordare di sostenere soprattutto le fasce di popolazione più emarginate.
Incuriositi dal suo caleidoscopico account Instagram, dove Johanna condivide alcuni dei suoi lavori, l’abbiamo intervistata anche per capire il suo punto di vista sulla pandemia che ha colpito tutto il mondo, costringendoci a ripensare alla nostra normalità.
Nei tuoi ultimi lavori parli molto di Coronavirus. Qual è il modo in cui vuoi affrontarlo attraverso l’arte, e qual è il messaggio che vuoi inviare?
“Sento che molte persone, soprattutto della mia generazione, hanno bisogno di capire che essere responsabili, essere politici è un privilegio e una necessità in cui dobbiamo impegnarci. Percepisco questa crisi come un campanello d’allarme. Il Coronavirus ha cambiato la nostra vita quotidiana, la nostra routine, i nostri modelli, il nostro comportamento. Questa crisi ci insegna che non possiamo dare la nostra libertà per scontata e che ora dobbiamo agire in modo responsabile – soprattutto per la salute degli altri.
Noi dobbiamo usare la nostra voce per coloro che non possono usare la loro. Per me, come artista, questo implica che dovremmo usare il nostro linguaggio creativo come strumento di espressione per spingere l’acceleratore sui dibattiti sociali e politici.
Il messaggio che voglio mandare è che ognuno deve essere consapevole della propria posizione in questo mondo così come del potere che la solidarietà può avere nella società. Il fatto che possiamo cambiare il nostro comportamento, così come il sistema in cui viviamo, dimostra che quasi tutto è possibile quando è necessario. E questa crisi dimostra anche come gran parte del nostro mondo e della nostra società dipenda da ogni singola anima e dal suo comportamento.
Se tutti noi prendiamo questo come un’opportunità per ripensare il nostro modo di vivere, la nostra generazione non solo imparerà molto, ma cambierà anche le strutture sociali. Dovremmo tutti riflettere in questo momento: stiamo decidendo le azioni che intraprendiamo e dobbiamo scegliere quale ‘ismo’ seguire: realismo, pessimismo, ottimismo o umanesimo?”
La tua non è “solo” arte, c’è un profondo impegno civile dietro: da dove arriva questa spinta?
“Come fotografa, creo narrazioni visive. Le mie fotografie sono il mio mezzo di comunicazione, io comunico mostrando il mio lavoro con persone online, alle persone che visitano le mie mostre, o a quelle che vedono il mio lavoro pubblicato da qualche parte.
Così facendo alzo la voce e raggiungo le persone.
Con ogni azione che facciamo o non facciamo, con ogni opera d’arte che diffondiamo con gli altri diamo forma al mondo in cui viviamo. Questo è ciò in cui credo.
Il che rende naturale per me usare questa voce per parlare di temi importanti della nostra vita, sia come artista che come essere umano. E ogni piccola azione ha in realtà un impatto: questa intervista ne è la prova migliore. Il mio post su LeaveNoOneBehind ti ha fatto interrogare su chi l’ha condivisa e portato a diffondere la mia esistenza dalla mia piccola comunità alla comunità di un’intera rivista italiana. È esattamente così che funzionano la partecipazione e l’attivismo online!
Se usiamo la nostra voce per attirare l’attenzione su questi argomenti, in realtà raggiungiamo le persone. Non importa quanti siano, noi diamo impulsi agli altri, che sensibilizzeranno altri, e così via. Non ho idea di quanti di voi leggeranno queste righe, ma ciò che mi interessa è dimostrare che ci siamo, tutti insieme. Dimostriamo che non solo diffondiamo la parola ‘solidarietà’, ma che viviamo di essa“.
Una parte importante del lavoro di Johanna riguarda l’inclusione, di cui ha un’idea estremamente precisa:
“Inclusione per me significa un femminismo vissuto e inclusivo: un femminismo interconnesso con la lotta al razzismo, al classismo, e che ha anche lo scopo di analizzare le diverse forme di discriminazione che vengono vissute dalle donne su diversi livelli. Un femminismo vissuto e inclusivo non significa giudicare gli altri o essere contro gli uomini, ma lotta per l’uguaglianza tra tutti i diversi tipi di genere.
Le idee di femminilità e mascolinità funzionano come una prigione, confinandoci in limiti che oscurano la realtà, ovvero il fatto che gli uomini possano essere teneri, le donne forti e le persone solo umane.
Ciò di cui abbiamo bisogno è che la società riconosca che il genere e la sua disuguaglianza sono costruiti socialmente e non si basano su differenze naturali. Noi dobbiamo capire che questa forma di empowerment comprende tutti noi. Voglio citare una mia cara amica, Johanna Lehr [fotografa e scrittrice, ndr.], che ha scritto:
Non si tratta di un sesso che è più grande di un altro o di sopraffare l’altro. Chi afferma di essere femminista e picchia gli uomini, o li abbatte, è in realtà una misandrica. […] Finché le ragazze di tutto il mondo saranno valutate meno, non scolarizzate, vittime di violenza, sottopagate, nutrite di meno, questo ‘problema’ non sarà mai esaurito. Stiamo ancora lottando per i diritti riproduttivi delle donne – Questa non è uguaglianza e deve finire.
Anche se molto è già cambiato e la mia generazione sta godendo di maggiore libertà rispetto, ad esempio, alle generazioni dei miei genitori, c’è ancora molto altro per cui lottare. Una lotta contro le strutture patriarcali, la disuguaglianza, il razzismo, il classismo“.
Johanna tende a precisare un’ulteriore cosa:
“Anche se non sono impegnata attivamente in politica, il mio obiettivo è quello di includere nel mio lavoro una forma di attivismo politico.
Stimolare il dibattito è uno dei miei obiettivi principali, per la mia arte e per la mia vita personale. Cosa c’è di unico nell’arte? Non si sa mai come gli altri percepiscono il tuo lavoro e le tue intenzioni originali. Le narrazioni visive dipendono dalla prospettiva che gli altri hanno e il modo in cui vogliono percepirla, che è ciò che amo davvero dell’arte e dell’arte fotografica”.
Per la nostra intervista Johanna ci ha inviato, in esclusiva, alcune sue foto non ancora pubblicate sui suoi social, realizzate anche con lo scopo di parlare del Coronavirus. Sfogliate la gallery per vederle.
Nell’era del movimento Trump e #MeToo un nuovo senso di consapevolezza per quanto riguarda l’auto-rappresentazione e la fluidità del genere hanno reso la mascolinità un concetto che da ridefinire. Le idee stereotipate funzionano come una prigione, confinandoci in limiti che oscurano la realtà, che gli uomini possono essere teneri, le donne possono essere forti e le persone possono essere solo umane.
Attualmente, gli uomini hanno più opzioni in termini di modelli maschili che mai, ma c’è ancora molto da fare per liberarli da rappresentazioni stereotipate della razza, virilità e identità.
Il tema principale del mio lavoro è l’interiorizzazione della pressione esterna dei ruoli sociali e come le persone di tutte le età li trasferiscono su se stessi. Per questo cerco di utilizzare gli aspetti psicologici della fotografia come mezzo per esprimere e sperimentare la consapevolezza di sé e l’immagine di sé.
Molti miei lavori riguardano i ruoli di genere, la pressione sociale verso il corpo femminile, come anche rappresentazioni di maschi e femmine che vadano al di là del tipico “sguardo maschile”.
Penso che sia abbastanza ovvio che mi sto concentrando principalmente sulle ambivalenze della natura umana.
In un certo senso, cerco di elaborare il modo in cui la nostra generazione affronta e pensa e soprattutto ripensa il mondo e la società in cui viviamo.
L’arte non è solo uno specchio della società, ma anche un modo per plasmare attivamente il nostro futuro, la comprensione del nostro mondo e della società.
LeaveNoOneBehind è un movimento politico nato sotto forma di petizione. Ha avuto inizio con il Coronavirus in per attirare l’attenzione su quelle persone che sono rimaste indietro in questa crisi. A coloro che non possono isolarsi o mantenere gli standard igienici adeguati, come la maggior parte di noi dovrebbe fare in questo momento.
Il Coronavirus danneggia soprattutto coloro che già soffrono di pessime condizioni di vita, soprattutto i rifugiati alle nostre frontiere esterne, i senzatetto, gli anziani e malati.
Attualmente, solo nel campo Moria di Lesbo, ci sono oltre 20.000 persone che vivono in strutture costruite per ospitarne solo 3.000. La quarantena, il lavaggio delle mani o il distanziamento sociale sono essenziali per questo momento, ma se si vive a Moria, niente di tutto questo è possibile.
Queste persone posso infettarsi, perché non hanno assistenza umanitaria, e sono lasciate al loro destino. Se il virus scoppia in un campo di questo tipo, sarà quasi impossibile impedirne la diffusione.
#LeaveNoOneBehind fa appello ad affrontare collettivamente questa sfida in modo da poter superare questa crisi e allo stesso tempo sostenere i nostri valori. C’è una petizione online sul loro sito web, firmatela e aiutateci.
Questa è una sfida che stiamo affrontando tutti insieme.
L’opera “Homo Faber” racchiude il dibattito su virtualità e sostituzione della realtà, e pone la questione della realtà e della naturalezza. Si basa sul costruttivismo sociale e comprende la realtà come il risultato di individuo e costruzione temporanea.
In tempi di Coronavirus e isolamento sociale i nostri mondi digitali e i personaggi guadagnano più importanza come mai prima d’ora.
Ci è sempre stato insegnato di non confondere il mondo di realtà e virtualità. Ma cosa accade se il mondo virtuale diventa sempre più reale e il nostro principale punto di riferimento nell’isolamento sociale?
Il nostro vero sé rischia di scomparire?
Cosa ne pensi?