Grandissima icona di bellezza e testimone dello charme francese al pari di Brigitte Bardot, ma anche simbolo di emancipazione femminile e attivista impegnata nelle più disparate battaglie sociali con protagoniste le donne.

Catherine Deneuve ha fatto scalpore recentemente, quando ha firmato per il quotidiano francese Le Monde una lettera di risposta al movimento Me Too nato negli USA dopo il caso Weinstein, assieme a un centinaio di altre donne dello spettacolo francese, in cui dichiarava di concedere il “diritto agli uomini a importunarci”.

La lettera manifesto contro Time’s Up e i movimenti nati dopo lo scandalo molestie denunciato da Asia Argento e poi allargatosi a macchia d’olio ha fatto discutere, e non poco, per il suo contenuto ma anche perché ha sorpreso notevolmente quello che è apparso, a tutti gli effetti, come un distaccamento della Deneuve dalla causa femminista.

Catherine stessa, però, pochi giorni dopo la pubblicazione su Le Monde ha tenuto a chiedere scusa alle donne vittime di molestie attraverso un’altra lettera, stavolta indirizzata a  Libération, nella quale ha chiarito il motivo per cui ha scelto di firmare la precedente. Lo ha fatto soprattutto dopo aver notato che il messaggio del documento pubblicato da Le Monde era stato travisato, e non poco, da moltissime persone, persino da molte che la lettera l’avevano firmata.

La Deneuve, come detto, non è però nuova a firmare lettere destinate a essere pubblicate per portare avanti campagne per i diritti civili; ne è un esempio il “Manifesto delle 343 pu***ne”, apparso su Le Nouvel Observateur il 5 aprile del 1971, scritto da Simone De Beauvoir e sottoscritto, appunto, da 343 donne che ammettevano di aver avuto un aborto quando ancora era illegale. L’intento era, ovviamente, sottolineare l’importanza della legalizzazione dell’interruzione di gravidanza.

Ecco la traduzione quasi integrale del manifesto, come riportato da  Nouvel Observateur.

Un milione di donne abortisce ogni anno in Francia. Lo fanno in condizioni pericolose a causa della clandestinità a cui sono condannate, mentre questa operazione, eseguita sotto controllo medico, è molto semplice. Si vuol tacere su questi milioni di donne. Dichiaro di essere una di loro. Dichiaro di aver abortito. Proprio come chiediamo l’accesso gratuito alla contraccezione, chiediamo l’aborto libero.

Aborto.

Una parola che sembra esprimere e limitare una volta per tutte la lotta femminista. Essere femminista significa combattere per un aborto libero e gratuito.

È qualcosa che riguarda le donne facili, qualcosa di sporco. Combattere per l’aborto libero e gratuito, sembra irrisorio o meschino. Sempre quell’odore di ospedale, di cibo, di cacca. La complessità delle emozioni legate alla lotta per l’aborto indica esattamente il nostro disagio, il male che proviamo a doversi persuaderci che è una lotta che vale la pena fare per noi stesse. Inutile dire che non abbiamo lo stesso diritto degli altri esseri umani di disporre dei nostri corpi. Eppure il nostro ventre appartiene a noi.

L’aborto libero e gratuito non è l’obiettivo ultimo della lotta delle donne. Al contrario, corrisponde solo al requisito più basilare, senza cui la lotta politica non può nemmeno iniziare. È vitale che le donne recuperino e si riapproprino dei loro corpi.

Siamo quelle la cui condizione è unica nella storia: gli esseri umani che, nelle società moderne, non hanno la libera disposizione dei loro corpi. Finora, solo gli schiavi hanno vissuto questa condizione.

Lo scandalo persiste. Ogni anno 1.500.000 donne vivono nella vergogna e nella disperazione. 5000 di noi stanno morendo. Ma l’ordine morale non è messo in discussione. Vorremmo urlare.
L’aborto libero e gratuito significa smettere immediatamente di vergognarsi del proprio corpo, ed essere libera e orgogliosa nel proprio corpo come tutti.
Non vergognarsi più di essere una donna.

Un ego che si rompe in piccoli pezzi, questo è ciò che provano le donne che devono affidarsi a un aborto clandestino;

essere se stesse in ogni momento, non avere questa ignobile paura di essere “catturate”, intrappolate, di essere in due e indifese con una specie di tumore nella pancia; una lotta emozionante, dal momento che, se vinco, ho solo appena cominciato a riappropriarmi di me stessa, che non appartengo allo Stato, a una famiglia, a un bambino che non voglio. Le donne, come tutti gli altri produttori, hanno infatti il ​​diritto assoluto di controllare tutte le loro produzioni. Questo controllo implica un cambiamento radicale nelle strutture mentali delle donne e un cambiamento non meno radicale nelle strutture della società.

1. Farò un figlio se ne avrò voglia, senza nessuna pressione morale, nessuna istituzione, nessun imperativo economico che possa costringermi a farlo. Questo è il mio potere politico.

2. Farò un figlio se ne avrò voglia e se la società in cui partorisco è adatta a me, se non mi rende schiava di questo bambino, la sua infermiera, la sua cameriera, il suo capro espiatorio.

3. Farò un figlio se ne avrò voglia, se la società è adatta a me e adatta a lui, se ne sono responsabile, nessun rischio di guerre, nessun lavoro soggetto a scadenze.

No alla libertà vigilata.
La battaglia per l’aborto è sui capi delle principali parti interessate, le donne. La questione se la legge debba essere liberalizzata, la questione di quali siano i casi in cui possiamo permetterci l’aborto, in breve la questione dell’aborto terapeutico non ci interessa perché non ci riguarda.

L’aborto terapeutico richiede “buone” ragioni per avere il “permesso” di abortire. Chiaramente questo significa che dobbiamo meritare di non avere figli. Che la decisione di averne o no non ci appartiene comunque.

Il principio rimane che è legittimo costringere le donne ad avere figli.
Una modifica della legge, consentendo eccezioni a questo principio, non farebbe che rafforzarla. Anche la legge più liberale così regolerebbe ancora l’uso del nostro corpo. L’uso del nostro corpo non deve essere regolato. Non vogliamo tolleranza, ma qualcosa che gli altri hanno dalla nascita: la libertà di usare i loro corpi come meglio credono. Ci opponiamo alla legge Peyret o al progetto ANEA tanto quanto alla legge attuale, e ci opporremo a qualsiasi legge che pretenda di regolare il nostro corpo in qualsiasi modo. Non vogliamo una legge migliore, vogliamo che venga rimossa completamente. Non chiediamo carità, vogliamo giustizia. Siamo 27.000.000 solo qui. 27.000.000 di “cittadine” trattate come bestiame.
Ai fascisti di ogni colore – che si riconoscono come tali o si definiscono cattolici, fondamentalisti, demografi, medici, esperti, avvocati, “uomini responsabili”, Debre, Peyret, Lejeune Pompidou Chauchard , il papa – diciamo che li abbiamo smascherati. Che li chiamiamo gli assassini della gente. Che vietiamo loro di usare il termine “rispetto per la vita” che è un’oscenità nella loro bocca. Siamo 27.000.000. Se lottiamo fino alla fine è perché vogliamo niente di più di ciò che ci appartiene: la libertà sul nostro corpo.

Per sapere di più su Catherine Deneuve e le sue battaglie, sfogliate la gallery.

Quando Catherine Deneuve firmò il manifesto delle 343 pu**ane
Fonte: web
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